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Chiara Muti canta e racconta la Pia senza pace

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Castello diruto, infestato dalle solitudini piú angosciose e fasciato dalla gora piú malsana, ove la disavventurata rese, in fine esausta, l'ultimo fiato («Siena mi fe, disfecemi Maremma»). La Yourcenar imagina un incontro-scontro tra i due soggetti, i quali tuttavia rivestono meno il sembiante di persone reali, volte a ragionare con varietà di sentimenti, che simboli e brandelli d'anime contraffatte, lacerate da un'acuminata accolta di traumi esistenziali, ed in specie mentali. Rispetto ai quali, quelli d'Amleto potrebbero parere delle pure bubbolate. E lui morbosissimamente geloso, e lei carcerata, e lui che le rinfaccia d'averlo menelaizzato, e lei che lo stuzzica perfida accennando a Simone, membruto ganzo atto a propinarle dei gaudî erotici pronti e spiccî... Ma poi il tutto è verità o sognería? Ed è sognería di Pia ovvero del consorte, fattosi nel frattempo vecchierel canuto e vieppiú ingaglioffito sotto sembiante d'un mendicante? In somma, una trappolería di plot, un garbuglio d'accidenti che a sgomitolarlo ed adombrarlo c'è da smarrire in parte, od in toto, la preziosa. Entro tali shok drammaturgici s'è intrufolato con propositi d'eleganza rastremata il compositore Azio Corghi da Cirié (1937), che ha dato alla luce «Pia?» (nome scritto anche col punto interrogativo arrovesciato alla spagnola, prima della P di Pia), ossia «Dialogo drammatico-musicale in un atto». Rappresentato mesi or sono all'Accademia Musicale di Siena in prima assoluta, ora il lavoro è stato rappresentato col medesimo allestimento in prima romana al Teatro Nazionale - Teatro dell'Opera di Roma, affatto lusinghiero l'esito. La «Pia» corghiana esige canto e parlato: piú parlato che canto. Il parlato sostenuto da una musica cameristica filiforme, idealmente capitanata da un assai melanconioso oboe e da succinte ma fiere percussioni; il canto intonato ad arcaismi preziosi e madrigalistici, che dànno un'aura di vaporoso e di straniamento alla sottile e beccheggiante cifra stilistica. Musica post-post-moderna, evanescente come certe patatite fritte di cui assapori il gusto sfizioso ma non ti sembra di mangiare alcunché: anzi, piú ne mangi e meno te ne sazi, la bocca ognora vuota. Musica cameristica fioca e filiforme: a tratti fin anoressica. Né è stato lieve per il direttore Vittorio Parisi condurre in porto il bizzarro e lunare oggetto reso dall'Ensemble strumentale del Teatro dell'Opera, né per «The Swingle Singers». Mentre la regía firmata da Valter Malosti, con la collaborazione di Paolo Baroni (scenografo) e Patrizia Patrizio Tirino (costumista), ha contornato le intorcinate anime d'un ambiente allusivo fra il simbolista, il preraffaellita e il decadente. Attorniati da un quartetto di mimi, sono risultati protagonisti l'attrice-cantante Chiara Muti, rivelazione deliziosa e puntuale nella recitazione e nella vocalità ritmiche commesse al personaggio del titolo, e Gianpiero Bianchi nella parte del marito fantasmatico intrugliato nei proprî vaneggiari connubiali.

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