De Gregori ricompone i suoi Pezzi
Per questo la visiera del suo cappello gli copre gli occhi, a proteggere la direzione dello sguardo. Non una parola oltre i versi. Non fosse così non sarebbe lui. Già in questo l'omaggio a Bob Dylan è più che esplicito. E lo è anche nel rilavorare le canzoni, in quello scomporle, metterle dentro una betoniera e tirarle fuori come se fossero state scritte ieri. Vecchia formula matematica: cambiando l'ordine degli addendi il prodotto non cambia. Identiche, però diverse. Ieri sera, al cospetto di un Palalottomatica stracolmo, il «Principe» ha presentato dal vivo il suo nuovo album, «Pezzi», ma senza strafare. Solo quattro brani, ed anche questo dà l'idea della sua diversità. Il tour dal vivo non è un momento promozionale obbligato, piuttosto ogni nuovo cd è una buona scusa per suonare. Dopo la mini-esibizione al Concertone del Primo Maggio e l'apertura del tour l'altra sera a Palermo, Francesco De Gregori ha toccato con mano, davanti al pubblico di casa, quanto sia ancora intatta la sua popolarità e quanto questo nuovo lavoro abbia colto lo spirito dei tempi, che è poi quello che aleggia nel concerto: disillusione, inquietudine, consapevolezza, ma anche rabbia, voglia di cambiare, speranza che l'etica torni ad albergare nei cuori e nei comportamenti della gente. Non a caso la scaletta si apre con «Vai In Africa Celestino», («una canzone sull'antinferno e sul libero arbitrio») dedicata al gran rifiuto di Celestino V, che nel 1200 rinunciò allo scranno papale e si ritirò a fare l'eremita sul Monte Morrone, alle falde della Maiella. Ma non è questo l'unico anatema del concerto: «paese di pecore e pescecani/..di tasse pagate dai poveri...se potessi rinascere/preferirei non rinascere qua», canta De Gregori in «Tempo reale». Forse è per questo che dalla scaletta è scomparsa «Viva L'Italia», semplice idiosincrasia con i tempi. «Pezzi», l'album, suona esattamente come il concerto, e viceversa. Suoni secchi, graffianti, diretti, come un gancio sul volto di un pugile suonato, che o reagisce o è destinato a soccombere. Questa è l'Italia cantata da De Gregori, un paese in cui i valori sono un'inutile orpello esistenziale, l'Impero Romano prima della caduta. Poetico e profetico, a tratti velenoso, dolcemente nostalgico: come quando tira fuori dalle tasche «A Pà», commovente elegia dedicata a Pasolini e tornata di stretta attualità, o «La Storia», tanto per ricordarci che siamo «per sempre coinvolti», per dirla con De Andrè. E, ancora, «la Donna Cannone», «La leva calcistica», l'inaspettata «Atlantide», riesumata da chissà quale cassetto, oppure «Sotto Le Stelle Del Messico» e «L'abbigliamento di un fuochista» eseguite con l'amico Ambrogio Sparagna all'organetto. Qualche giorno fa Gianni Morandi, sulle pagine di questo giornale, diceva di non capire chi stravolge le canzoni dal vivo, lui che le esegue come il pubblico le vuole, pari pari all'originale. De Gregori invece le rimastica, le plasma sull'umore e sui tempi, come se Manzoni riscrivesse i Promessi Sposi in tempi di divorzio e di aborto. Qualunque mestiere, esercitato ai massimi livelli, diventa un'arte. È per questo che l'irriconoscibile «Rimmel», «Dr. Doberman» in chiave reggae, «La valigia dell'attore» piegata a nuove velocità, sono inconfutabili prove d'artista. Come lo sono (artisti) anche i sei fidi compagni di viaggio capitanati da Guido Guglielminetti. Si chiude, dopo oltre due ore, con «Buonanotte Fiorellino» in blues, lo zucchero dopo il veleno. Gran concerto, religiosamente laico.