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Cuba, l'isola dei diritti cancellati

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Cominciamo dalle seconde. Nelle scorse settimane è uscito sugli schermi l'ultimo film di Oliver Stone: s'intitola "Comandante", ed è una lunga, noiosa e adorante intervista a Fidel Castro. Peggio che agiografia: idolatria. Come ha scritto un critico: "Non una parola sui prigionieri torturati, i diritti umani violati, i campi di lavoro per omosessuali, la gente ammazzata perché cerca di lasciare il paradiso della rivoluzione". Persino nauseante, a tratti: come, per esempio, quando Fidel si schermisce, da vecchio ipocrita imbolsito, ironizzando sul proprio ruolo («Tiranno io? Ma se sono schiavo del mio popolo...»). Se, invece, volete sapere quel che è doveroso sapere "sui prigionieri torturati, i diritti umani violati, i campi di lavoro per omosessuali, la gente ammazzata perché cerca di lasciare il paradiso della rivoluzione", è uscito da qualche giorno in libreria un dossier ("Il libro nero di Cuba, editore Guerini e Associati, ? 17,50) curato da "Reporter senza frontiere", un gruppo di giornalisti che non può certo essere sospettato di anticomunismo viscerale. Non è un pamphlet: è un rapporto. Nomi, cognomi, circostanze, sentenze, indagini sulle condizioni nelle quali vivono i prigionieri politici nell'isola felice governata da quasi mezzo secolo da quel sant'uomo di Castro. Un paradiso nel quale lo stipendio medio si aggira sui 10 dollari al mese, e dove ogni dissidente viene spiato, processato, torturato, condannato a pene severissime, persino in spregio alle leggi esistenti. Il 7 aprile 2003 furono condannati 75 fra giornalisti, militanti dei diritti umani e sindacalisti, a pene che arrivavano fino a 28 anni di detenzione: in totale, 1450 anni di carcere. L'opinione pubblica mondiale - per molti anni sorda agli appelli che provenivano da molte organizzazioni umanitarie - protestò contro quella sentenza mostruosa. Alcuni governi convocarono gli ambasciatori cubani pretendendo spiegazioni. L'Unione Europea congelò i negoziati commerciali in corso con il governo dell'Havana. Qualche giorno dopo furono condannati a morte, al termine di un processo sommario, tre cubani che avevano dirottato un traghetto, e preso in ostaggio i passeggeri, nel tentativo di fuggire dal Paese. Amnesty International ha adottato i 75 condannati a pene detentive come "prigionieri di opinione". Nessuno dei condannati ha visto tutelati i propri diritti di difesa. "Gli avvocati", rivela un rapporto di Amnesty International, "sono dipendenti dello Stato cubano, e in tale condizione, potrebbero esitare a contestare i procuratori e le prove presentate dagli organi di sicurezza". In quella occasione specifica, "i processi si sono svolti davanti a tribunali di provincia. Una volta che l'accusa ha completato l'istruttoria è previsto che l'imputato nomini un avvocato per la sua difesa, ma sembrerebbe che ciò non sia avvenuto. A tutti è stato assegnato un avvocato d'ufficio. Alcuni parenti e colleghi degli imputati hanno denunciato il fatto che le autorità hanno impedito agli avvocati di parlare con i loro clienti e che, di conseguenza, si erano trovati nell'impossibilità di prepararne la difesa. Le udienze si sono svolte davanti a dei giudici, ma senza la presenza di una giuria popolare. Benché alcuni membri delle famiglie e altre persone siano stati autorizzati ad assistervi, i diplomatici stranieri e alcuni giornalisti sono stati estromessi". L'organizzazione Human Rights Watch - in un rapporto del 2003 - denuncia il fatto che "i prigionieri sono stati detenuti in cattive condizioni, spesso in celle sovrappopolate; alcuni di loro sono dimagriti durante la carcerazione, altri hanno ricevuto cure mediche insufficienti; molti detenuti hanno subito maltrattamenti fisici e sessuali, in genere perpetrati da altri prigionieri con la complicità delle guardie carcerarie". Non solo: molti parenti sono stati intimiditi e minacciati: le famiglie sono state ridotte alla miseria e alla disperazione. La sezione olandese dell'or

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