Don Milani, il prete buono dipinto di rosso dagli inventori del '68
E non solo perché l'uno e l'altro sono toscani e cattolici di ceppo antico, ma perché l'uno e l'altro ti si pongono dinnanzi con un atteggiamento di sfida. Perché tale è la «provocazione» nel senso originario. Quello, cioè, che rinvia al latino «provocatio» e che, appunto, vale come provocazione, come sfida, ma anche come diritto d'appello, come ricorso. Il don Milani raccontato da Mazzerelli «si appella» al suo buon diritto: quello di parlare alla Chiesa e al popolo. Sempre come prete. Sempre obbediente. Sempre come uomo scomodo che indossa una tonaca e non se ne dimentica. Questo prete, di padre toscano (proprietario terriero) e di madre ebrea, esorta la Chiesa a tener conto dei poveri: perché, se non ci pensa la Chiesa, negli anni Cinquanta e Sessanta, e nel cuore profondo della Toscana Rossa, ci pensa il Pci. È vero che il partito di Togliatti lo fa a proprio uso e consumo, in nome di un progetto che schiaccia l'uomo: ma il povero, l'ultimo non pensa a questo; intravede, invece, la possibilità di una società più giusta. La redenzione a portata di mano? Sì, e dentro la storia, promettono i comunisti. Don Milani, nella sua Barbiana (lì, alle pendici dell'Appennino Toscano, lo hanno trasferito perché rompeva le scatole), ha creato una scuola. La frequentano ragazzi del popolo, ai quali non viene insegnato l'odio di classe, ma l'impegno nello studio e nel lavoro; insomma, la serietà di un progetto di vita che non fa sconti a nessuno. Bisogna dire la verità, combattere per la verità: e se i potenti-prepotenti ti chiedono di stare zitto e di obbedire, bisogna andare avanti per la propria strada senza arrendersi. E che, Cristo si è forse arreso all'iniquità? Si è vergognato di dire tutto quello che andava detto? Ha cercato di addolcire, di attenuare, di rendere digeribile il suo messaggio? Don Milani è aspro, irritante, indigesto. Proprio come Mazzerelli. Il quale, ventenne, il 31 luglio del 1966, si arrampica fino alla parrocchia di Barbiana, nel Mugello, per parlare con quel prete, di cui tanti dicono peste e corna. No, non trova un comunista. Ma uno che non vuole che il comunismo trionfi, giocando sull'egoismo, l'avidità, la vigliaccheria dei borghesi; e sul silenzio della Chiesa, cui sembra mancare il coraggio della denuncia e della proposta. Dunque, il generoso coraggio della offerta, del dono. E del faccia a faccia contro l'ipocrisia. Mazzerelli porta a don Milani il suo bagaglio di esperienze militanti: figlio del popolo, socialista e cristiano, fieramente polemico nei confronti dell'«intellighentsia» rossa, delle sue mitologie (a partire da quella resistenziale), delle sue mistificazioni. E di tutto l'armamentario propagandistico grazie al quale se di don Milani non si dice, nudo e crudo, che è un «comunista», se ne parla comunque come un «compagno di strada», che può essere utile alla Causa. Ma don Milani non vuole essere utile alla Causa. Anzi, vuole strappare ai comunisti le bandiere della Giustizia, della Denuncia, della Verità: loro, la agitano per ragioni ideologiche, perché così comandano Marx, il materialismo storico e dialettico e Santa Madre Russia; lui, la vuole impugnare, sventolare e poi restituire alla Chiesa, che se n'è dimenticata e che adesso ne ha quasi paura. Mazzerelli parla a don Milani della sua associazione «Forza del Popolo», che è anticomunista, socialista e cristiana: al prete piace, perché non tesserarvi i ragazzi di Barbiana? Lo studioso fiorentino ricostruisce un incontro e poi un percorso nel segno di don Milani (che muore nel 1967) e delle sue vere, incontestabili intenzioni (a provarlo ci sono i documenti). Si contesta, dunque, l'«appropriazione indebita» che del sacerdote hanno fatto le sinistre marxiste e «radical», trasformandolo in un'icona presessantottina. Mazzerelli spiega come e perché questo sia potuto avvenire e come e perché, in base a quali complicità e pavidità, il vero volto (e il vero magistero) di don Milani sia stato occultato.