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di ADRIANO MAZZOLETTI NON ESITIAMO ad affermare che quello che Ornette Coleman ha presentato ...

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Finalmente un grande caposcuola, l'ultimo dei geniali innovatori che hanno caratterizzato il jazz nella sua evoluzione stilistica si è esibito al Parco della Musica che in questi tempi ha visto un po' di tutto, dimostrando di non aver nulla perduto di quelle doti che ne hanno fatto un gigante della musica del '900. Pubblico in delirio in una sala gremita. Richiesta di bis e non finire di un concerto che si è svolto senza nulla concedere allo «spettacolo» che, troppo spesso oggi, fa parte integrante delle esibizioni a cui siamo solisti assistere. Immobile di fronte ai suoi tre strumenti, sassofono contralto, tromba, violino che spesso utilizza nello stesso brano, Ornette con uno smagliante abito da scena a quadri e cappello scuro, unica concessione alla platea, ha suonato quattordici brevi composizioni senza mai un attimo di incertezza o defaillance. Un'ora e quindici minuti di grande musica. Sono passati trentasette anni da quando suonò alla sala A della Rai di Via Asiago a Roma, nel corso di quelle stagioni di concerti jazz che avemmo l'occasione di realizzare, ma la sua musica, malgrado il passare del tempo, rimane sempre viva è attuale. Oggi è cambiato qualcosa. Ornette Coleman esplora in profondità la musica della sua gente. La trasforma, la modifica, la converte fino a farla diventare musica originale. Solo alla fine quando ha volutamente eseguito, in modo riconoscibile, le prima battute di «When the Saints Go Marchin In», «l'enigma» Coleman è stato svelato. È stato suo figlio Denardo che da quando è scomparso Ed Blackwell è il batterista del complesso e che non si stacca mai da suo padre, a dare la spiegazione del mistero della musica di Ornette: «È un grande osservatore, analizza tutto, esplora. Ma per quanto riguarda la musica è uno scienziato. Ha scoperto il DNA del suono Insegna ai musicisti ad avere le loro idee, a non essere omologati. Ci sono molti modi, molte strade per arrivare nello stesso posto». È vero questo domando ad Ornette che spesso preferisce lasciare la parola al figlio: «All'inizio dopo aver imparato il sassofono ho cominciato a suonare il rock'n'roll. Ero capace soltanto di suonare il blues in sibemolle. Una sera che arrivarono Lester Young e tanti altri a fare un jam session rimasi colpito perchè non conoscevo i temi, non sapevo nulla. Mi misi così a studiare la musica di Bird e Bud Powell. Ma ero ancora molto acerbo, una volta in un club presi un assolo su "Stardust". Suonavo quello che sentivo senza pensare ai cambi di accordo. Mi hanno subito licenziato». Quella di Ornette è stata una strada difficilissima: «Ho avuto molti rifiuti, la gente diceva che non stavo facendo niente, che non capiva cosa stessi facendo, dove stessi andando». «Mio padre - interviene Denardo - sapeva esattamente quello che stava facendo. Più tardi la gente ha capito il suo concetto, ma all'inizio è stata dura». «Molti hanno detto di non capire la mia musica - aggiunge Coleman senior - Ma è semplice. Quando suonavo non restavo mai fermo su un brano, cambiavo continuamente. Usavo un brano come introduzione ad un altro. È una cosa che faccio tutt'ora». Quando Ornette Coleman apparve sulla scena del jazz fu definito un «rivoluzionario» anche dal punto di vista sociale. In Italia fu preso come emblema della «contestazione giovanile». «Non sono mai stato un contestatore - spiega - La gente mi vedeva ben vestito e anche quando non avevo soldi per mangiare, cercavo di presentarmi bene. Camminavo per strada con bellissimi vestiti, pur avendo fame. Sono cresciuto nella comunità nera, dove la gente ha sempre grande dignità».

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