Baby Monicelli
Mi trovai di fronte a un film di Mario Monicelli, «La ragazza con la pistola», di cui era protagonista Monica Vitti, nota allora come «l'attrice della incomunicabilità» creata da Antonioni. Rimasi sbalordito. Sullo schermo, fra l'ilarità dei presenti, una Monica con i capelli neri e con l'accento siciliano rivendicava il diritto a un delitto d'onore nei modi più buffi e con una aggressività caricaturale delle più ghiotte. Il personaggio l'aveva costruito Monicelli che aveva già al suo attivo altre trasformazioni comiche di attori drammatici. La più celebre, negli anni Cinquanta, a favore di Gassman nei «Soliti ignoti», ma il caso di un'attrice drammatica radicalmente mutata in attrice comica non era cosa di tutti i giorni. Anzi è forse tra le più rare che possano accadere al cinema dove, se mi guardo indietro e attorno, molte attrici comiche, salvo forse a Hollywood, non se ne trovano, Il merito, ovviamente, si doveva alla duttilità con cui Monica si era adeguata alle indicazioni di Monicelli, ma il merito principale era proprio di Monicelli per la sua capacità di trattare gli attori come cera e di ricavarne, specie affrontando il comico, tutto quello che voleva. Il comico. Mi è capitato spesso di definire Monicelli — con Luigi Comencini e Dino Risi — uno dei padri della commedia all'italiana, pur verificando molto spesso nella sua carriera delle svolte nel drammatico che lo rivelavano altrettanto grande e creativo. Una volta, del resto, parlandomi qui su «Il Tempo» di «Amici miei», mi aveva detto: «Cosa c'è di più tragico di un quartetto di vecchi che si mascherano da giovani perché hanno capito che sono arrivati all'anticamera della morte?». Ecco la tragicità che, anche solo in modo implicito, Monicelli ha sempre saputo esprimere con decisione. Anche se non vi partecipa personalmente perché anche oggi, arrivato questo 15 maggio a compiere novant'anni, nonostante il suo montgomery di lana chiara, i pullover colorati e, spesso, la calottina in testa con fiocco, non si può certo dire che si mascheri da giovane. È giovane davvero e la vivacità del suo carattere dedito spesso, da buon toscano, ai sarcasmi più taglienti, lo immerge di continuo in un'atmosfera vivida e allegra contro la quale vanno a frantumarsi gli anni che passano, lasciandogli solo dei segni esteriori come i capelli bianchi che aumentano (specie nei periodi in cui esibisce una barbetta corta da moschettiere, con baffi alla d'Artagnan). Senza mai, però, che questa allegria, nella vita come nelle opere, sminuisca il tono serio che invece lo distingue, non in contraddizione con sé stesso, ma anzi con logiche precise: specie nel suo modo di far cinema, volutamente lontano dagli effetti. Me lo son sentito riconfermare più volte attraverso gli anni: «Man mano che vado avanti — mi ha spesso dichiarato — io alla regia, nel senso della macchina da presa, credo sempre di meno. La regia, in realtà, è solo la ricerca del personaggio, è lo studio di una certa atmosfera, è la piccola cosa che si fa fare a un attore è un taglio al momento giusto. Cosa faceva ai suoi tempi Chaplin? Come regia «tecnica» nei film di Chaplin non c'è niente. Ed è così che deve essere, perché bisogna rappresentare le cose come sono, facendo in modo che appaiono le più semplici possibili. Con uno scopo solo: far vedere al pubblico tutto quello che serve per capire senza mettersi in mezzo con le tecniche. Perché allora c'è il rischio che non veda più niente. Come capita — aggiungeva quasi ogni volta — nei film tutto elucubrazioni sulle immagini che piacciono tanto a voi critici. Le fanno belle quelle immagini, le caricano di mille fantasie, colorandole di tutte le sfumature possibili, però sotto, dentro, quello che raccontano quasi non c'è e comunque, molto spesso, a loro non interessa. Basta che stupiscano, basta che diano pugni nello stomaco, basta che dicano allo spettatore: «Son qua io, con la corona in testa, il più bravo a mostrarvi meraviglie. Il resto non conta. Saranno