«SICK NOTES» DI GWENDOLINE RILEY
La incontriamo nella luce «rosa-dorata» della capitale, come lei stessa la definisce. Appassionata per tutto ciò che rappresenta la cultura russa, non nasconde il suo amore per gli animali, i gatti, ma soprattutto le capre per il loro sguardo interrogativo. La protagonista del romanzo, Esther, ritorna a Manchester dopo un viaggio negli Usa. Riprende la propria esistenza di sempre, ovvero: la non esistenza. In realtà i suoi giorni rappresentano una sorta di prototipo dell'attuale ventenne (anche trentenne? Non ci spingiamo oltre). Una famiglia alle spalle disastrosa: padre inesistente, una madre sola e nevrotica, un fratello apparentemente indifferente dello squallore che lo circonda e non privo di quel delirio di onnipotenza che contraddistingue quasi tutti i suoi coetani adolescenti o presunti tali. Lavori provvisori, un'amicizia confortevole con Donna con cui divide lo stesso appartamento e la stessa bislacca quotidianità. E gli amori: Richard, Lee, Dean e su tutti Newton che rappresenta l'unica possibilità di sperimentare un sentimento più convincente e forse più duraturo. La struttura narrativa è condita da frequenti eventi diurni e notturni che vedono protagonisti ora il cinquantenne eccitato in cerca di ragazze da infastidire in bus, ora il letto, ora le passeggiate terapeutiche per la città, ora qualunque oggetto domestico cui Esther affida la propria solitudine «che puzza». Nicchia paradisiaca e rifugio ai dolori ancestrali è la lettura di romanzi e poesie. E Gwendoline Riley quali autori predilige? «Dostoevskij e Fitzgerald». Registi? «Eric Rohmer e OrsonWelles». Quale genere musicale ascolta con più piacere? «Amo i cantautori alla chitarra come Eliot Smith e Morrissey. Ma anche la country music». Ama viaggiare? «Non riesco mai a rilassarmi quando viaggio. Adoro le sale d'attesa nelle stazioni o negli aereoporti perché mi suggeriscono il senso della transitorietà». Una sorta di sindrome da homeless? «Sicuramente».