Mazzantini ha un sogno: la memoria condivisa
Nel senso che "insieme" rappresentano l'Italia, benché sembrino dividerla, spezzarla, lacerarla. 10 giugno 1940, 25 luglio 1943, 8 settembre 1943, 25 aprile 1945: eccole, le date. La dichiarazione di guerra, la caduta del Fascismo, l'armistizio, la Liberazione: "dentro" gli Italiani che applaudono e poi maledicono, rischiano di trasformarsi in un "volgo disperso che nome non ha" e poi scelgono contrapposte bandiere (o magari scelgono di non scegliere, come avvenne per la cosiddetta "zona grigia"), si scontrano prima e dopo il 25 aprile, continuano, oggi, a farlo sul senso e sul valore del 25 aprile, come se quella data (di generale esultanza? di pacificazione? in cui tutti si devono riconoscere? ma quando mai...) chiudesse una guerra e ne aprisse un'altra. Quando finirà? Carlo Mazzantini se lo chiede, offrendoci una nuova, sofferta testimonianza di combattente "dalla parte sbagliata". Così come aveva fatto con altri libri («A cercar la bella morte», «I balilla andarono a Salò»), ricchi anch'essi di voglia di capire vent'anni di Italia e di fascismo corale, vittorioso e trionfante, e seicento giorni di fascismo vinto, disperato, militante, con qualche migliaio di ragazzi in camicia nera ostinatamente fedeli ai valori cui erano stati educati. Mazzantini se lo chiede, rifugiandosi alla fine in un'immagine consolatoria: una foto dell'«Illustrazione Italiana», vista da bimbo, in cui compaiono, sottobraccio sullo sfondo del cimitero di Arlington, due reduci della guerra civile americana: un confederato e un unionista. Ma Mazzantini ci crede davvero in questa prospettiva pacificatrice, in questa possibilità di una memoria condivisa o, quanto meno, accettata? Lui, vecchio ragazzo di Salò, alieno allora da ogni fanatismo e oggi da ogni nostalgismo, ci crede a una storia patria in cui si ricostruiscano anche le scelte dei "vinti"? Perché in questa storia patria si dovrebbe riconoscere, tanto per dirne una, che quei "vinti", di sedici, diciotto, venti anni, erano molto meno "responsabili" del fascismo, di quanto non lo fossero coloro che per vent'anni il fascismo avevano servito e acclamato, che al fascismo avevano educato le giovani generazioni e che dopo il 25 luglio o dopo l'8 settembre passarono dall'altra parte della barricata. In questa storia patria si dovrebbe riconoscere, e lo ha fatto Mazzantini, così come lo ha fatto lo storico Roberto Vivarelli in un libro che qualche anno fa sconvolse le "anime belle" dell'antifascismo («La fine di una stagione», Il Mulino), che sui ragazzi di Salò finì col gravare tutta la "colpa" del fascismo. Carlo Mazzantini «L'ultimo repubblichino» Marsilio 108 pagine, 10 euro