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Matteotti, due amori: gli oppressi e Velia

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Il regime cercò di cancellarne la memoria e di compromettere la vedovaLa parola d'ordine di Farinacci era «smatteottizzare l'Italia»L'adorata moglie fu costretta a chiedere un prestito a Mussolini

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Il «sacerdote laico» del socialismo, il «moderno Redentore» che si oppone eroicamente alla violenza e alla nascente dittatura fascista, il «volontario della morte» (come lo definì Gobetti) va incontro al proprio destino in un caldo pomeriggio di giugno. Il 30 maggio del '24 Giacomo Matteotti pronuncia un infuocato discorso alla Camera chiedendo l'annullamento delle elezioni del 6 aprile che avevano dato a Mussolini il 66% dei voti. Parla in un clima di «rassegnazione, di cedimento, di compromesso», parla senza avere intorno a sé compagni risoluti, decisi e tantomeno coraggiosi quanto lui. Smaschera la strategia di «normalizzazione» del futuro Duce che, smessi i panni del fascismo «rivoluzionario», cerca di accreditare il regime con i governi moderati d'Europa e, all'interno, con i «benpensanti», la borghesia, la burocrazia statale e militare, l'industria e perfino la Chiesa. Un'immagine che Matteotti «vuole colpire, demolire, ridicolizzare, come un bluff propagandistico». «Quell'uomo dopo questo discorso non dovrebbe circolare», dirà il suo ex compagno di partito Benito. E, dopo gli entusiastici applausi della sinistra, quando un suo collega deputato del Psu, Giovanni Cosattini, gli dice che ha salvato l'onore delle opposizioni, il «San Francesco della plebe» risponde con profetica amarezza: «Sì, ma ora preparate la mia commemorazione». Undici giorni più tardi, sul lungotevere Arnaldo da Brescia, dove oggi sorge uno dei tanti monumenti eretti in suo ricordo nella Penisola, i sicari fascisti raccolgono l'«invito» del loro capo e mantengono la promessa-minaccia lanciata un anno prima sulle colonne del Popolo d'Italia: «Sarà bene che egli si guardi, che se dovesse capitargli di trovarsi, un giorno o l'altro, con la testa rotta...!». Immortalati da un bellissimo film di Florestano Vancini, quegli istanti fanno ormai parte del nostro cosiddetto «immaginario collettivo». Il «tribuno» socialista che si difende disperatamente dai suoi sequestratori ma viene sopraffatto, il viaggio in auto fuori della Capitale, il barbaro assassinio a coltellate, la debole, anacronistica e inutile protesta dei parlamentari democratici sull'Aventino. Il sacrificio, la morte, l'efferato delitto sono rimasti a lungo sotto ai riflettori della Storia, lasciando però in ombra la vita privata, le battaglie giovanili in favore dei derelitti in un'Italietta rurale e misera, nella quale la classe agraria rappresenta la reazione e le leghe l'unica possibilità di riscatto. Un vuoto colmato con successo dallo storico Giuseppe Tamburrano con il suo «Giacomo Matteotti, storia di un doppio assassinio». Nato il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine (Rovigo), «una delle zone più povere e inquiete del Paese», «sesto di sette figli e unico sopravvissuto», Matteotti fa il suo esordio in politica nel 1901 con un articolo nel quale dimostra perché «hanno torto quelli che dicono essere il mondo sempre andato così», che la dice lunga sul suo modo di vedere la realtà. Il partito socialista è stato fondato a Genova quando Giacomo, «uno dei tantissimi giovani borghesi intellettuali che sposarono la causa socialista», aveva appena sette anni. E, insieme con Turati e la Kuliscioff, Matteotti diventa un alfiere del socialismo riformista, movimento gradualista ma concretamente rivoluzionario perché riesce a incanalare la protesta contadina ottenendo importanti conquiste sociali e sindacali. La concretezza, l'aderenza alla realtà accompagnate dal perseguimento tenace e stoico del Sogno costituiscono la caratteristica preziosa di questo leader «evangelico» che predica un socialismo cristiano, rifiuta la violenza e punta invece sulla legalità, invitando ghandianamente i braccianti agricoli a non rispondere alle provocazioni: «Anche la viltà è un dovere, un atto di eroismo», sostiene. Scrive Tamburrano che il riformismo di Matteotti non nasce dai libri ma «dalla realtà dei rapporti sociali: la sua radice è nelle condizioni dei contadini e nelle lotte delle leghe, è nell'impegno a camb

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