A «Mahagonny» con Brecht e Weill si va al lupanare
D.1930 un'«opera» tra le piú grottesche, mordaci e sgradevoli del repertorio musicale del Novecento: «Ascesa e caduta della città di Mahagonny». Anni di «Expressionismus», di Repubblica di Weimar, di violenze liriche e ribellioni sarcastiche. Anni di squarci estetici a metà sanguinolenti, a metà affatto finti: in una Germania appestata da una cultura che, un tempo sovranamente hegeliana e poi equivocamente wagneriana, è ormai carcassa, sfatto oggetto. Paese esacerbato da sé stesso, avvoltolato nel caos, maldestramente peccaminoso. Ma musica e testo di «Mahagonny» non solo guardano a quella terra crivellata di superbia, presunzione e vizî quale una contraffatta Babilonia, ma additano piú in generale vuoi l'alienazione dell'imbestiato uomo europeo che popola e infetta il Novecento, vuoi l'apocalissi della civiltà occidentale che, dopo all'incirca cinque secoli di varie malíe, si consuma nel corso di un'agonía ignominiosa ov'è dato contemplare due supermacelli mondiali, e sentine atomiche, e il vispo sterminio di centinaia di milioni d'esseri umani e, sovr'a tutto, l'ubriaco assassinio dell'arte tout-court (musica non esclusa). Il miracolo di «Mahagonny»? Brecht e Weill pongono in atto un prodotto a suo modo «perfetto» non ostanti le loro concezioni poetiche difformi, per non dire antitetiche. Brecht vuole l'egemonia del testo drammaturgico; Weill di quello musicale. Brecht critica Weill perché a suo giudizio compone da squisito; Weill accusa il collega d'esser troppo ideologico, dunque immanentisticamente fazioso. Il bisticcio non sorte effetti discari: anzi. Brecht risulta qui piú icastico d'un profeta nel denunziare le ossessioni perverse d'una società mascalzona, infoiata nella forsennata accumulazione del capitale, avida come una belva di crapule e godurie sessuali (però risolte, anziché in maestosi copulari presso palagî all'uopo, in mingherlinissime «sveltine» da casino per minchioni scannati). Società in somma oscenamente nuda di valori etici. Weill si congiunge al testo con una magistrale musica ossuta, contaminata d'avanzi «classici», barbagli cabarettistici e lordure canzonettistiche. È l'irrisione sguaiata dell'«opera» tradizionale: in un contesto di degrado soffocante degno senz'alcun forse d'ammirazione critica. Al Teatro dell'Opera di Roma, nella dépendance del «Nazionale», «Mahagonny» riceve una rivisitazione tra luci ed ombre. Nulla di piú tedesco di quest'opera, che gronda germanicità, berlinesità da tutti pori. Un cantante prussiano che ugoli «Torna a Surriento»? Però tanto si dànno da fare il direttore Jonathan Webb e il regista Daniele Abbado coll'intera serqua d'interpreti vocali da riuscire ad un prodotto d'una propria decenza. Qua e là difettando tuttavia l'autenticità dell'opera, la sua «Stimmung» tossica ed iconoclastica. Da uno a dieci la potenziale votazione, alla performance s'assegni dal critico un sette meno.