C'era una volta il ritratto di Mao E nient'altro
Era un Mao verticale, alto una mezza dozzina di metri, circondato da bimbi sorridenti che sventolavano bandierine rosse. Non una gigantografia ma un disegno molto accurato e rispettoso dello stile che diremmo cinese, ben lontano dal neorealismo sovietico: il Timoniere aveva il volto trasfigurato, il famoso piccolo bitorzolo sul mento corretto da un ciclamino, e tutto il manifesto da sotto in su era un trionfo di fiori. Sullo sfondo una quinta di montagne innevate. Voleva trasmettere serenità. Da quel ponte fino poi a Pechino, durante i due giorni e le due notti di viaggio, assordato dalla radio ferroviaria con i canti e le esortazioni rivoluzionarie che grondavano senza soste sui passeggeri, alternati a letture del Renmin Ribao e ordini di comportamento (non sputare, non mettere i piedi sul sedile, tieni ben chiuso lo sportello, aiuta lo scopino a pulire lo scompartimento), ogni stazione mostrava il suo manifesto: e qui era Mao con i contadini delle Comuni, là era Mao con gli operai dei pozzi petroliferi del Nordest, tutti fatti a mano e di bella fattura, stereotipi ma ciascuno con una sua originalità nei colori, nella scenografia. Città e villaggi avevano reclutato i migliori artisti per esaltare i momenti lieti del regime e del suo Capo. Quell'anno, lo venimmo a sapere molto tempo dopo, erano morte per le inondazioni e le carestie quasi due milione di persone. Alla stazione di Pechino i Mao erano moltissimi, alcuni di statura vertiginosa, una ventina di metri e anche più, a salutare le folle brulicanti che salivano e scendevano dai treni. Erano i giorni del Capodanno cinese, quasi quarant'anni fa, e alla gente che raggiungeva i familiari per la ricorrenza i manifesti ricordavano gentilmente che festeggiare è Mao, buona cosa ma con la dovuta gratitudine all'Uomo che aveva portato la Cina alla vittoria del socialismo e alla felicità. Nei miei lunghi periodi di vita cinese la propaganda, il modo particolare di educare politicamente, di mobilitare e tenere avvinti i cittadini, fu uno degli aspetti che più mi destò interesse. Non solo perché era l'arma insostituibile di un regime totalitario (anche in Urss lo era) ma perché usava mezzi di espressione strettamente tradizionali, senza concedere nulla a mode importate (come invece accadeva in Urss). Tutto made in China: di mutato rispetto ai disegni e ai dipinti antichi vi era soltanto il tema, e il tema politico promozionale era nobilitato da chiari richiami alla cultura e alle regole confuciane, l'esaltazione della giustizia, dell'altruismo, della compassione e della benevolenza, il devoto rispetto per Colui che ha preso il posto dell'Imperatore, verso il quale i sudditi sono tenuti alla lealtà e fedeltà. Tutto questo era espresso assieme alla letteratura, alla musica ma soprattutto alle arti figurative, più accessibili ad un popolo in grandissima parte incolto. Si sa che in Cina fin dagli albori, grafica (figlia della calligrafia a ideogrammi), pittura e scultura si sono sempre visti come strumenti pedagogici, l'artista considerato un saggio maestro. Nel 1600 diceva Shi Tao, uno dei più rinomati pittori della storia cinese, che "la pittura obbedisce all'inchiostro, l'inchiostro al pennello, il pennello alla mano, la mano al cuore del pittore" e, aggiungiamo noi, durante il maoismo, il cuore del pittore obbediva al regime. Bisogna dire che, contenuti a parte, i risultati estetici erano quasi sempre di buon livello: e vedremmo stimolante ancora oggi una mostra di affiches di quei decenni. Rivelerebbero anche la coraggiosa lotta di molti artisti per conquistarsi uno spazio di libertà creativa all'interno delle parole d'ordine imposte dai laboratori della propaganda. Una lotta dapprima esitante e sorniona, poi più scoperta. Per fare un esempio, l'epopea della Lunga Marcia narrata da un gruppo di grafici e pittori di Shanghai attraverso una serie di poster, si spogliava a poco a poco della retorica rivoluzionaria per dare vita a sc