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Se la Rete rende inquiete le biblioteche

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Per questo motivo le biblioteche contemporanee sembrano vivere una fase dall'inquietudine. È un problema di identità, innanzitutto. La rivoluzione digitale ha messo in dubbio il significato di parole come testo, libro, conservazione e la stessa idea di biblioteca. Ma è anche il ruolo che l'istituzione bibliotecaria è chiamata ad assolvere ad essere posto in discussione, dovendosi declinare in nuove forme l'assunto base - valido per una biblioteca nazionale come per quella minuscola di un comune tra i monti - che la vede strumento di mediazione tra necessità informative dell'utente e risposte racchiuse nei libri. Questo senso di disagio nella capacità di adempiere al compito a cui sono chiamate è invece da Matthew Battles ritenuto un segno distintivo della loro esistenza nei secoli, come si evince dal titolo del suo ultimo volume: «Biblioteche: una storia inquieta» (Roma, Carocci, 2004). A dire il vero l'opera di Battles, bibliotecario della sezione libri e manoscritti rari dell'Harvard College, non è una «storia», ma una summa di «storie» nelle quali libri e biblioteche giocano i ruoli dei protagonisti: l'autore non ci conduce attraverso gli scaffali con il passo metodico dello storico, ma piuttosto con quello discontinuo dell'affabulatore, pronto a percorrere un tratto di buona gamba, per poi fermarsi a divagare, quando non addirittura a ribattere il cammino per recuperare un discorso che si era lasciato alle spalle. E, in questo procedere narrativo sincopato, si rivela anche il tema di fondo: le biblioteche da quando esistono vivono la contraddizione di dover svolgere attività spesso apparentemente incompatibili: dove porre - ad esempio - la giusta misura tra le esigenze della conservazione e quelle della divulgazione? Come svolgere un servizio pubblico, per tutti, privilegiando al contempo alcune fasce di utenza? O come far sì che una collezione libraria si accresca non solo in quantità ma anche in qualità, visto che - come afferma provocatoriamente Battles in apertura di volume - «nel leggere la biblioteca giungiamo subito ad un'ovvia conclusione: la maggior parte dei libri sono brutti, molto brutti a dire il vero»? Quasi alimentandosi dei campi di forza generati da queste contraddizioni, le biblioteche hanno cercato, negli anni, di definire la propria fisionomia all'interno della società: una fisionomia che non è riconducibile alla somma dei libri, belli o brutti, in esse collocati, ma alla trama di relazioni significative che le biblioteche instaurano tra ciascuno di loro, divenendo così testimonianza della memoria e della cultura di una comunità. Questa valenza simbolica dell'istituzione bibliotecaria diviene palese in occasione di solenni tagli di nastro, come si è visto nello scorcio del secolo passato con la costruzione di nuovi edifici per le biblioteche nazionali a Londra, Parigi e Francoforte, ma forse ancora di più il simbolo viene percepito quando le pagine si dissolvono in fumo, tra le devastazioni antiche della biblioteca di Alessandria o sotto i colpi delle bombe incendiarie durante l'assedio di Sarajevo. Abbiamo visto in Italia bruciare La Fenice e il Petruzzelli: di fronte al rogo di una biblioteca è come se nel teatro bruciassero anche gli attori: le voci si estinguono, il racconto si interrompe e, siccome il silenzio ci terrorizza, lasciamo che altre voci mediatiche riempiano gli spazi che occupava, un tempo, quella che George Steiner definiva «una buona lettura». Se ragioniamo di inquietudini, qui si tocca un punto cruciale: infatti l'attacco all'approfondimento della propria dimensione culturale, che è obiettivo del buon lettore, non giunge oggi dai roghi dei libri. Da quando esistono le biblioteche ci sono sempre s

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