La stella della Scala brilla ad Amsterdam
In taluni casi i nostri ragazzi tornano, magari per delle rapide epifanie nei nostri teatri lirici. È il caso di Enrichetta Cavallotti, romana di nascita, formatasi e diplomatasi alla Scala di Milano, perfezionatasi con Baryshnikov al New York City Ballet, diventata prima solista nel Balletto delle Fiandre di Anversa e ora nella Compagnia del Balletto Nazionale Olandese di Amsterdam. Domani, venerdì e sabato la Cavallotti sarà la glaciale Mirta, l'implacabile regina delle Villi, nella «Giselle» illustrata dalla presenza di Roberto Bolle e Laura Comi al Teatro dell'Opera. Che effetto le fa tornare a Roma per danzare nella sua città? «È la prima volta. Sono emozionata come se fosse il mio debutto. Qui ho iniziato a conoscere la danza e qui torno a ballare sotto la direzione di Carla Fracci che ricordo alla Scala (ero una bambina) in un'impressionante scena della pazzia di Giselle». Perché, ancora molto giovane, se n'è andata dall'Italia? «A dieci anni ho lasciato Roma e la mia famiglia per studiare a Milano dove ho vissuto prima dai parenti poi in un collegio delle Orsoline. A diciotto, dopo il diploma, ho voluto affrontare la carriera nel modo migliore. In Italia le occasione di danza sono limitate, mentre all'estero ho ballato tante volte che da noi mi occorrerebbero dieci carriere. Confesso però che, anni fa, stare lontana di casa mi pesava di meno e il mondo mi distraeva di piú». Che tipo di repertorio predilige? «Sono ballerina neoclassica. Ho interpretato numerose coreografie di Balanchine, il mio preferito, ma anche di Van Manen. Ho affrontato i maggiori classici: dal "Lago" a "Giselle" alla "Bella addormentata". Tra i moderni Forsythe, Béjart, Christopher Bruce e la Graham. Adesso sono reduce da una "Cenerentola" ad Amsterdam e da uno spettacolo balanchiniano ad Oslo. Dopo Roma mi aspetta a febbraio un "Don Giovanni" ad Amsterdam». Come vede da «straniera in patria» la danza in Italia? «Proprio perché non ci vivo non posso esprimere giudizi circostanziati. Mi è parso di notare che all'estero le istituzioni ballettistiche sono piú organizzate e solide... Ma nel nostro Paese, di là dalle scarpette rosa, c'è una gente, una cucina, un clima, una luce, una joie de vivre assolutamente imbattibili! Sapesse quanto mi mancano quando nelle città del nord è buio, torno a casa la notte sotto la pioggia o la neve, le strade deserte, un freddo cane, la solitudine...» Ma l'amore? «Fugace. Mariti e buoi dei paesi tuoi: io nel mio paese per ora non ci sto». I momenti esaltanti della sua carriera artistica? «La collaborazione con Forsythe, uomo e artista dalla personalità travolgente: il suo carisma t'infonde energie straordinarie. Altro momento è stato quando, dopo aver subito sulle scene londinesi un grave incidente al ginocchio che mi ha tenuto lontana dalla danza circa un anno, sono riapparsa nel mio teatro di Amsterdam nei panni di "Carmen" su musiche di Shostakovich e il pubblico mi ha applaudita a lungo, come se avessi ballato fino alla sera precedente». Che cosa le hanno insegnato tanti anni d'assenza dall'Italia? «Soprattutto che "patria" non è una parola retorica ma un sentimento che ti porti dentro per sempre, e che quando meno te lo aspetti prende a pulsarti forte nel cuore». Quali consigli ai danzatori piú giovani? «Non so. Restare o andar via dalla propria terra è una scelta del tutto soggettiva. È bene seguire l'istinto. Certo, ideale sarebbe rimanere qui e ballare con la frequenza e l'organizzazione di cui godi in altri Paesi. Ma nella vita non si può aver tutto. Se ti dedichi all'arte devi essere pronta a duri sacrifici».