di LUCIANA VECCHIOLI «NON È un film sulla mafia.
"Il padrino" ne è un esempio. Ho dipinto i mafiosi per quello che sono, dei miserabili che sanno solo uccidere». Riapre la stagione del cinema di impegno civile il regista Roberto Faenza, con il suo ultimo film «Alla luce del sole», da venerdì nelle sale, dedicato alla figura di don Pino Puglisi, parroco del rione palermitano Brancaccio, considerato una sorta di Bronx. Terra di nessuno dove regnano miseria, droga ed illegalità. Lui voleva sconfiggere la mafia che invece lo ha brutalmente ucciso in un clima di totale indifferenza il 15 settembre del '93, giorno del suo compleanno, a soli 56 anni. La sua colpa quella di aver realizzato, insieme a tre suore ed un viceparroco, un centro di accoglienza per i tanti bambini che vivono in strada. «Ora al suo posto c'è don Mario Galesano, padre spirituale di Totò Cuffaro» rivela l'attore Corrado Fortuna («My name is Tanino» di Virzì e «Mio perduto amor» di Battiato), originario di Palermo, che nel film è il vice del prelato ammazzato. «Nonostante arrivassi dal successo di "Prendimi l'anima", ho incontrato tante difficoltà a portare sul grande schermo questa storia - dice Faenza - Nessuno la voleva finanziare. Anche a Palermo non abbiamo trovato alcun sostegno. Siamo stati costretti a girare a Bagheria. L'unica scena realizzata al Brancaccio, quella dei cani, l'abbiamo fatta di nascosto». A prestare il volto a Don Puglisi c'è Luca Zingaretti. Volutamente ingrassato, emaciato, ma straordinariamente intenso. Zingaretti, su quali elementi ha basato la sua interpretazione? «Mi sono documentato. Leggendo le interviste di Puglisi ma soprattutto incontrando la tanta gente che lo ha conosciuto». Cosa ha cercato di far emergere dal personaggio? «Ho semplicemente narrato la sua storia. Non volevo che diventasse un santino. Volevamo fare un film sobrio che raccontasse solo la verità». Quando Puglisi avverte la fine, consapevole che verrà ammazzato, si rivolge al suo vice e dice «Non lasciate il mio corpo troppo solo»... «Il momento più emozionante del film. Quel prete aveva un coraggio da leone, sapeva a cosa stava andando incontro. Ma come Gesù nel giardino degli ulivi anche lui ha paura. Un attimo di debolezza». Come si è trovato a contatto con i bambini palermitani? «Ho avuto una sensazione di grande affettività. Due in particolare mi seguivano sempre, anche fuori riprese. La gran parte sono cresciuti in fretta, sulla strada. Occorre avvicinarsi a loro con garbo, considerarli adulti. Vivendo una realtà di violenza e sopraffazione quotidiana sono molto diffidenti». Quanto le è costato emotivamente recitare la scena finale, quella dell'uccisione? «Tra inquadrature, trucco e quant'altro sono rimasto disteso per terra con il sangue addosso circa una giornata, per non perdere la concentrazione. Avvertendo la grande paura e la solitudine che Puglisi aveva nell'animo, anche se lui cercava di minimizzare. Ancora oggi rivedendo quella scena mi viene la pelle d'oca». Che rapporto ha con la fede? «Ho ricevuto una educazione religiosa, per anni da bambino ho frequentato l'oratorio. Non sono però un vero e proprio osservante, ma credente sì».