Fenomeno Buzzanca: la sua fiction sui gay è per destra e sinistra esempio di tv pubblica
La storia delicata e drammatica di un padre all'antica, che all'improvviso scopre l'omosessualità dell'unico figlio, ha non solo toccato un record di ascolti, ma ha ottenuto il plauso bipartisan di destra e sinistra, dei DS e della Lega. Un'approvazione entusiastica viene addirittura dalla associazione «Arcigay» e dal suo mentore, l'on. Grillini della banda dei Prodi. Proprio ieri mattina m'è capitato di avere una lunga conversazione con Buzzanca, che solo un paio di decenni fa era il dongiovanni d'esportazione della commedia all'italiana. Ma che, prima dell'exploit televisivo di questi giorni, ha calcato da grande il palcoscenico teatrale recitando Molière, Shakespare, il Pirandello di Liolà, Plauto. E, appunto ieri mattina al telefono, mi sembrava contento e nello stesso tempo sorpreso dell'impatto che il suo film ha avuto sul pubblico, toccando trasversalmente i cattolici e gli agnostici, i progressisti e i conservatori. Certo, se quel copione Buzzanca lo avesse portato alla direzione di Viale Mazzini, al mitico settimo piano dei discepoli di Bernabei, gli uscieri lo avrebbero bloccato già in portineria. Ma evidentemente il Paese cammina con le gambe dell'Europa, nessuna provincia è un'isola, e la cappa del bigottismo a poco si sgretola dal Mediterraneo ai mari del Nord. Il vero scoglio da superare, a mio modesto avviso, era la soggezione che tutti hanno per il «politically correct»: per cui si temeva che la trama risultasse sbiadita e compromissoria, come il carattere dei personaggi. Per non dispiacere ai movimentisti da una parte e ai parrucconi dall'altra, gli autori avrebbero potuto disegnare un padre molle, succube della nuova ondata trasgressiva: in una parola, poteva venir fuori una caricatura del genitore invertebrato, incapace di picchiare il pugno sul tavolo e di esprimere un sentimento autentico. Per fortuna Lando Buzzanca ha seguito la sua natura, o come suggerisce Dante, ciò che il cuore gli «ditta dentro». E quando scopre che è omosessuale il suo unico, amatissimo figlio, oltretutto uomo d'ordine e poliziotto, non può trattenersi e lo colpisce con uno schiaffo. È il momento più vero e doloroso della storia. Una storia asciutta, diretta con stile e pudore da Luciano Odorisio. Ma la sorpresa più forte è venuta dallo stesso Buzzanca, fino a ieri insuperato galletto dell'harem, o «Merlo maschio», che tanta curiosità riscosse anche all'estero. Qualche critico si è domandato, stranamente, come Buzzanca abbia potuto passare dal comico al drammatico con naturale facilità; ma era una domanda insipida, perché gli attori veri sono tutti medaglie a due facce, il riso e la lacrima, lo sberleffo e il pianto. Del resto, basta riflettere sui grandi attori di ieri, da Vittorio Gassman a Ugo Tognazzi, per non citare il sublime Alec Guinness. Il quale fu di volta in volta ironico e tragico: portò in scena il «Cocu magnifique» e l'Amleto, il travet imbranato e il tragico gay, Laurence d'Arabia. Adesso si parla già, in televisione, di un «nuovo corso» del Buzzanca redivivo, che assapora una seconda giovinezza artistica e sta per intraprendere un «impegnato ruolo nel cinema sociale». Ma è proprio questo che dovrebbe preoccupare l'attore: diventare «educational», che significa noia. Iddio lo salvi dai falsi redentori e dalla eventuale crudeltà del telecomando. A me piacerebbe invece che Buzzanca, con quella faccia maschia che si ritrova, dura e segnata di rughe, apparisse nei ruoli forti che furono di Jean Gabin o John Wayne. Fosse ancora attivo il grande Marcel Carné, gli farebbe girare un remake del «Porto delle nebbie». L'unica difficoltà consisterebbe nel trovare un'altra Michèle Morgan, dagli occhi azzurri come laghi di montagna.