Quando trasformò la «Marcia turca» dell'odiato Mozart in una marcia funebre
E, quanto a ghiribizzi, Glenn Gould ne coltivava a josa. Ad esempio: si professava avverso al movimento per il disarmo atomico perché non esistevano analoghi movimenti per la condanna dei bimbi immisericordiosi che strappavano le ali alle libellule. Ad esempio: portava con sé ad ogni concerto la sua sedia su cui si sistemava in modo tale che il mento sopravanzasse d'appena pochi centimetri la tastiera del pianoforte: una postura strampalata. Ma il clamore piú reboante Gould lo suscitò quando, trentaduenne, dopo soli nove anni d'attività concertistica segnata da trionfali accoglienze di pubblico e da piú temperati encomî critici, annunciò d'un tratto la decisione di ritirarsi dalla ribalta per consacrarsi esclusivamente all'attività discografica: denunciando, per un verso, che l'interesse quasi morboso nutrito dalle platee nei confronti dell'interprete lo urtava ed umiliava nel profondo, riducendolo nei panni pacchiani di uno showman; e che, per altro, l'esecuzione in pubblico, con l'estemporaneità che comportava, impediva al musicista di soddisfare a quell'anelito di perfezione ed a quel diritto d'ininterrotta revisione stilistica che gli erano invece conceduti nel lento e ponderato svolgimento della registrazione discografica. D'altronde aborriva le tournées, esecrando gli annessi voli aerei. E pose in atto quello strambo proponimento. Misantropo, falotico, schivissimo, sovente urticante, indifferente ai guadagni, Gould si rinserrò in una camera d'albergo proustianamente insonorizzata, fuori città, nel fitto d'un bosco, tirate le tende e le persiane abbassate, dormendo il giorno (con lo sprone dei sonniferi) ed esercitandosi la notte al pianoforte, pressato da una torma d'avanzatissimi strumenti tecnologici di registrazione. Un sol mezzo di comunicazione: il telefono. Telefonava intorno a mezzanotte, ma mettersi in contatto con lui era cimento disperato, giacché una segreteria telefonica avvertiva puntuale: «La persona desiderata è al momento assente». In verità, lasciava l'hotel di rado: mai per frequentare teatri o sale di concerto («luoghi destinati a scomparire» assicurava), bensí per un tacito bighellonare, per un rendez-vous coi prediletti cani e gatti (ed una creanzata puzzola), o per internarsi in uno studio di registrazione; talvolta, per paradossali interviste: negli ultimi tempi anche per dirigere un'orchestra. E diresse il «Siegfried-Idyll» di Wagner con uno stacco di tempo cosí lento come non era mai accaduto d'ascoltare: al pari d'un'esecuzione della «Marcia turca» mozartiana che somigliava nel suo grave indugio ad una sòrta di marcia funebre. Prima di suonare usava immergere le mani nell'acqua calda. Anche d'estate usciva indossando: una maglia di lana, uno o due maglioni, un cappotto, una sciarpa, un cappello a tese svolazzanti. E calzava i guanti. Che quando suonava erano tagliati alle dita, giusta una foggia ottocentesca. Amava praticare il nuoto: nella quale acquorea impresa i guanti erano di caucciú. Gould celebrava senza remora il culto della tecnica applicata all'arte: «Ho fede nell'intrusione della tecnologia». Le sue registrazioni discografiche erano da lui ripetute decine e decine di volte onde poter scegliere, con scrupolo maniacale, le singole battute da incuneare nell'esecuzione su disco. Guardando con sospetto alla presunta sacertà dell'arte, asseriva: «L'arte non è a priori positiva, anzi, è potenzialmente distruttiva. Dovremmo analizzare i settori in cui ha minori possibilità di far danni, orientarsi in base ad essi ed inserire nell'arte una componente che le consenta d'autoannullarsi». Glenn Gould lo sentivi mugolare mentre suonava, lui che si teneva per «l'ultimo dei puritani».