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di DIEGO GABUTTI A DIFFERENZA del 2001, che secondo un'antica promessa cinematografica avrebbe ...

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Duecento anni fa, a Odense, in Danimarca, nasceva per cominciare Hans Christian Andersen, il padre della Sirenetta, del Brutto Anatroccolo, dei Vestiti Nuovi dell'Imperatore, del Soldatino di Stagno, della Principessa del Pisello e di tutte le altre icone immortali delle fiabe. È una ricorrenza che il suo paese natale s'appresta a celebrare col dovuto sfarzo disneyano, per esempio ricostruendo fin nei minimi dettagli «la stanzetta», nella «parte occidentale di Copenhagen», dove il giovane Andersen («povero in canna eppure felice», come Danny Kaye nel film sulla sua vita, Il favoloso Andersen) scrisse le storie che avrebbero portato la fiaba, un genere che all'epoca veniva considerato basso e persino un po' ignobile, in testa a tutte le hit parade letterarie. A differenza dei Fratelli Grimm, e di tutti gli altri cultori del folklore, che raccolsero dalla viva voce di chi ancora le raccontava le fiabe tramandate dalla tradizione, Andersen fu un autore originale - uno scrittore per l'infanzia, il primo della sua specie. Nel 1605, esattamente quattrocento anni fa, trecento anni prima che Andersen vedesse la luce in Danimarca, Miguel De Cervantes pubblicò in Spagna la prima parte del Don Chisciotte (la seconda parte, apparsa nove anni più tardi, nel 1614, è da dimenticare). Don Chisciotte è la storia d'un lettore ossessivo di storie fantastiche, praticamente un caso clinico, ma soprattutto è il ritratto d'un personaggio che i postmoderni, impegnati fin dai tempi di Joyce e delle avanguardie a smontare il giocattolo della letteratura, non hanno ancora eguagliato. Don Chisciotte, oltre che una storia a suo modo fantastica, è stata anche la prima riflessione moderna sulla natura del racconto fantastico. È a Miguel de Cervantes, uno scrittore di quattrocento anni fa, che dobbiamo le prime riflessioni sul fantastico e sui suoi consumatori, un tema che ancora affascina la critica e la letteratura moderna, da Italo Calvino a Umberto Eco. Un'altra medaglia (e sono due) sul petto dell'Anno di Grazia 2005. Sono passati cent'anni, inoltre, dalla morte del grande Jules Verne, il padre della fantascienza, che dedicò la vita a onorare la scienza, l'Altissimo della modernità, ricamandole intorno scenari da Mille e una notte. Jules Verne, come scrittore, forse non valeva granché: i suoi personaggi sono fiacchi e pedanti, la voce narrante dei suoi romanzi è per lo più noiosa e le informazioni scientifiche, di cui le sue storie abbondano, si saltano in genere a piè pari, ma il movimento delle sue storie è ipnotico e le invenzioni narrative sempre straordinarie. Viaggi sulla Luna e al centro della terra, elefanti meccanici, sottomarini sciccosi come sale da ballo, navi grandi come isole, persino castelli gotici dove le streghe e i fantasmi sono prodotti tecnologici e orrori virtuali, come nelle moderne storie cyberpunk. È certamente invecchiata la lingua di Verne, il suo sbandierato ottimismo scientifico suona ormai decisamnte ingenuo alle orecchie dei contemporanei d'Hiroshima e di Cernobyl, ma l'idea d'un progresso illimitato, cioè la promessa che era stata pronunciata dalla scienza nel secolo delle grandi invenzioni e della rivoluzione industriale, non ha mai avuto un illustratore più appassionato, nemmeno tra i filosofi e gli utopisti. Non a caso, allora, tra le ricorrenze di questo 2005 ce n'è una che riguarda anche Herbert George Wells, che di Verne fu in qualche modo il grande antagonista, come Macchia Nera di Topolino. Giusto cent'anni fa, nel 1905, Wells pubblicò Una moderna utopia, uno dei suoi libri minori: l'ennesima descrizione, ahinoi, d'un mondo governato da scienziati redenti e re-filosofi. Era una nota a piè di pagina, dei suoi grandi romanzi degli anni precedenti, dalla Macchina del tempo all'Uomo invisibile, dai Primi uomini sulla Luna al

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