Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Ma aspetta una chiamata «La storia di Jeremiah mi ha mangiato la vita»

default_image

  • a
  • a
  • a

La ventinovenne attrice ha colpito allo stomaco la platea internazionale di Capri-Hollywood con la sua seconda opera da regista «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa», tratta dal romanzo autobiografico della giovane star della letteratura americana J. T. LeRoy, già presentata all'ultimo Festival di Cannes e dal 14 febbraio prossimo anche sugli schermi italiani. Dopo «Scarlet diva», per due anni Asia Argento si è immersa nella realizzazione di questo film duro e violento che racconta la storia di un'infanzia di torture e di soprusi, subita dal piccolo Jeremiah. Trascinato in motel fatiscenti da Sarah (Asia Argento), la madre alcolizzata e drogata che si prostituisce con i camionisti nei parcheggi del Sud degli Stati Uniti, il bambino è costretto a una vita al quarzo, continuamente brutalizzato dai compagni d'occasione della madre-strega. E, tuttavia, Jeremiah riesce a osservare quel nomadismo buio e feroce con il candore con cui si segue una fiaba. Asia Argento, il suo nuovo film è intriso di una violenza estrema. Non ha temuto di superare il limite e di spingersi oltre il punto di non ritorno? «Questo film e il ruolo di Sarah si sono mangiata la mia vita. L'esperienza è stata talmente dura e massacrante che mai avrei potuto chiedere a un'altra attrice quello che mi sono imposta sul set. Oltre a non lavarmi per settimane, a non dormire, a patire la fame, per raggiungere lo stordimento esistenziale di Sarah, prima mi chiudevo nell'auto e alzavo il riscaldamento al massimo e, poi, mi sfinivo con flessioni e altri esercizi faticosi. Di una cosa sono sicura: non reciterò mai più in un film di cui sono la regista». Con «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa» punta a shoccare il pubblico? «Il mio obiettivo non è di shoccare la gente, ma di denunciare la violenza contro i bambini. L'infanzia è, comunque, una fase in cui si subisce violenza. Nel caso di Jeremiah, la violenza che subisce è oltre ogni limite e io ho cercato di capire le cause di questa realtà per raccontarle, dall'abbandono dei genitori all'indifferenza del contesto sociale». Nel film compaiono brevemente personaggi del calibro di Winona Rider, Marilyn Manson, Peter Fonda, Ornella Muti: hanno accettato quei piccoli ruoli per amicizia verso di lei? «I miei amici si sono rifiutati di comparire nel film. A parte Manson, che prima avevo già incontrato un paio di volte, non conoscevo questi grandi attori che hanno avuto il coraggio di darmi fiducia, come in maniera più rischiosa fa il mio produttore Gianluca Curti. Mi sono rivolta a Peter Fonda perché sapevo che aveva avuto un'infanzia difficile. Quanto alla Muti, l'ammiro fin da piccola e sono onorata di averla avuta come madre, sia pure solo in un film». Negli ultimi anni, ha girato vari film negli Stati Uniti con registi di valore, quali Gus Van Sant, Abel Ferrara, George Romero, e forse girerà con Sophia Coppola. E gli italiani? «Lavorare all'estero, per me, è diventata una necessità. I registi italiani, forse, credono che sia diventata americana. Non mi chiamano da sette anni. Non faccio nomi, ma sono tanti i registi italiani che stimo e con i quali lavorerei volentieri».

Dai blog