Singolare mostra all'Archivio di Stato di Torino su ricevimenti e cene di gala al Quirinale
Per lo più i potenti mangiano a casa loro, serviti da maggiordomi e cameriere con la cresta e il grembiulino, oppure mangiano al ristorante, invidiati dagli altri clienti e riveriti dal direttore di sala e dal sommellier. Loro pagano, di solito, anche se non sempre, e dunque sono loro a decidere il menù. Ma talvolta a questi poveretti tocca partecipare ai pranzi ufficiali, ospiti d'altri potenti; sono occasioni difficili, dove quel che conta è il cerimoniale e, quanto al menù, lo decide il protocollo. A Torino, in questi giorni e fino a metà febbraio, si tiene una mostra dedicata appunto ai «Pasti del Quirinale», ai ricevimenti e alle cene di gala che prima il Regno d'Italia e poi la Repubblica italiana hanno apparecchiato per re, primi ministri, presidenti e generalissimi in arrivo da tutti i punti cardinali. Ospitata nei locali dell'Archivio di Stato torinese, fortissimamente voluta dai Duchi di Biella e dal Centro studi piemontesi, sponsorizzata da Regione e Provincia, sotto l'alto patrocinio dalla Presidenza della repubblica e in particolare del suo segretario generale, Gaetano Gifuni, la mostra è una vetrina di vanità e di meraviglie (tutte pagate, fino all'ultimissima lira, dai contribuenti, che poi sono i soli a cui non siano mai rimasti, finita la festa, neppure gli avanzi del banchetto). Nei locali della mostra sono raccolti oltre 500 pezzi, dai piatti da dessert usati da Umberto I prima di morire a Monza, nel 1900, per mano dell'anarchico Bresci ai boccali da birra che nel 1888, in un'occasione specialissima, vennero serviti al Kaiser e al suo seguito (gente che notoriamente non apprezzava il barolo né i bicchieri di cristallo). Ci sono le stoviglie in porcellana di Meissen nelle quali Vittorio Emanuele III Re d'Italia serviva la «bagna cauda» (una «bagna cauda» classica, praticamente aglio puro) alle principesse e agl'imperatori in visita e questi la consumavano con aristocratica nonchalance e senza neppure arricciare il naso. Oggi il menù dei pasti del Quirinale è decisamente più spartano. Pare che a Bush e signora, nel 2003, sia stato servito giusto «un risotto agli asparagi, un rombo con le mazzancolle e una minuscola porzione di melanzane, pomodori e mozzarella». Alla Regina d'Inghilterra, in visita ufficiale, fu scodellata nel piatto una lombatina di vitello con i funghi e stop. Si mangia con più fantasia, se non meglio, nel ristorante cinese sotto casa. Oltretutto, mentre un tempo si mangiava con calma, senza fretta, oggi il protocollo assegna un'ora, massimo un'ora e mezza, alle libagioni ufficiali, come se fuori ci fosse una fila di clienti in attesa che si liberi il posto.Ma tempo e menù, al Quirinale, non sono che quisquiglie, indegne d'attenzione. È infatti il cerimoniale, insieme all'arredo e all'irresistibile fascino del potere, il piatto forte dei banchetti di Stato: la livrea dei valletti, lo sberluzzìo dell'argenteria, l'eleganza con la quale i camerieri servono la minestra o versano l'acqua minerale gasata nei bicchieri, l'ombra dei corazzieri alla porta, il profumo della storia che si confonde con quello del ragù, il fruscio degli abiti da cerimonia e delle tovaglie di Fiandra. Più che una mostra, per quanto utile e istruttiva, la fenomenologia dei banchetti di Stato meriterebbe, mi sembra, almeno un reality show. Gl'italiani, col naso appiccicato alla vetrina come gli orfani nei vecchi libri di lettura delle elementari, potrebbero lustrarsi gli occhi con questo spettacolo inebriante: il potente che sbocconcella una pagnottella o un grissino, che si alza per andare in bagno, che studia controluce una forchettata di spaghetti e che parla per frasi storiche, tipo «il terrorismo sarà sconfitto, ve lo dico io» oppure «passatemi il sale».