di ENRICO CAVALLOTTI DI UN grande impero è rimasto un valzer.
È forse poco? No, è un retaggio immenso, primo perché è musica, secondo perché è musica che fa istintivamente, irrefutabilmente ballare (walzen, in lingua tedesca). E nel ballo è il moto, e nel moto è l'eterno-tutto, che senza quel moto sarebbe l'eterno-nulla, del quale neppure noi uomini saremmo testimoni, e tutto sarebbe buio e silenzio eterni. E magari, chi può dirlo?, pace. Ma cos'è questo valzer che ha condensato in un «um-pa-pa» elementare, banale, ripetitivo, un'intera civiltà europea donde anche l'Italia - in specie il Lombardo-Veneto - ha tratto inestimabili beneficî e lezioni civili di cui ancor oggi gode? Il valzer è sovr'a tutto una melodia odorosa e superficiale che ruota su sé stessa a mo' di una vittoria, e che a sé stessa pare però sfuggire, come malata d'una melanconia. La contraddizione si specchia nella coppia che valza: lui la stringe e la vortica all'estrema voluttà ma lei flette il vólto ad una gioia impossibile: ad un rammarico che il pudore fascia di sorriso. Monumento al valzer, «Il Pipistrello» di Johann Strauss vale il commiato di un popolo, di una nazione, di un'arte, alla propria identità cosmopolita. Sotto tale profilo esso non è «operetta» ma «dramma», e tanto piú quella fiumana di valzer s'imbrilla di dolcezza e fatuità terribile tanto meno quella musica può occultare i veleni funebri ch'esala d'intorno. È vero: «Il pipistrello» risuona d'allegrezza e godío spensierato fra seriche torme d'indomiti ritmi ternarî, ma è del paro vero che denuda feroci stati d'abbandono e di fine: la finis Austriae, e piú, la fine della civiltà occidentale che, dissugato il retaggio di un'umana dignità additata dall'Età dei Lumi lungo il secolo decim'ottavo, precipitava verso il secolo mostruoso par excellence: il Novecento, belva e sterminatore dell'uomo. «Il Pipistrello» non è un'operetta: è l'attestazione di un'agonia che di lí a poco si sfarà in incubo: in inferno che tuttora dura. Si osservi come sotto i lattei e gonfî décolletés delle dame che ansimano nel gran valzer del secondo atto, occhieggino prodromi di decomposizione. Questa l'operetta che il Teatro dell'Opera ha messo in scena a conclusione di una lodevole stagione. Donato Renzetti sul podio ha tenuto a freno le irruenze coreutiche soffondendo l'arcana partitura come d'inquieta attesa. L'Orchestra echeggiava di tristezze tra un'onda e l'altra dei canti e il cast vocale modulava e recitava come all'interno di un'alienazione vispa e enimmatica. Bene le signore Darina Takova (Rosalinde) e Anna M. Dell'Oste (Adele), meglio Armando Ariostini (Eisenstein) e Francesco Grollo (Alfred), meno bene l'en travesti acretto della signora Provvisionato (Orlofsky), disinvolto Massimo Dapporto nei ridevoli panni di Frosch. Adusato al genere operettistico, Filippo Crivelli non ha ecceduto neppure lui nella fantasmagoria epicurea della regía: anzi, ha talvolta immobilizzata la scena quasi a sospenderla in un attonito, imperscrutabile incantesimo. Accurati i costumi della signora Anna Biagiotti; plausibili le danze del Corpo di ballo dell'Opera, cui ha preso parte, morbidamente, Carla Fracci. Applausi per tutti al sipario.