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Gli opposti che si incontrano

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Ronchey, nei suoi articoli, usava "troppi termini stranieri". Aveva quell'intollerabile aplomb da giornalista inglese. Era inoltre un liberale confesso. All'allegra retorica del giornalismo trombone preferiva l'arida eloquenza delle cifre nude e crude. Ma soprattutto aveva spiegato col "fattore K" (dove "K" stava per "kommunizm", comunismo nella lingua di Lenin e di Stalin) l'impossibilità per il Pci di sedere in quella che Pietro Nenni, all'alba del centrosinistra, aveva chiamato «la stanza dei bottoni». Agli occhi di Fortebraccio, Ronchey era un pericoloso "cosmopolita" da isolare, come gli ebrei e i sionisti negli ultimi anni del potere stalinista. Ciò accadeva, spiega lo stesso Ronchey nella bella intervista rilasciata a Pierluigi Battista, «Il fattore R» (Rizzoli, 270 pagine, 16 euro) per effetto d'una «fissazione di natura religiosa». A sinistra si chiamava l'opinione pubblica alla guerra, sia pure soltanto una guerra dei bottoni. Lì cominciò la deriva dell'intera intellighenzia italiana, sempre meno liberale e illuminista, sempre più «ipnotizzata dalla tragica terribilità del potere». Presto la politica, di destra e di sinistra, si sarebbe ispirata agli aut-aut del giornalismo ringhioso fino a perdere la propria identità e quasi a giocarsi l'anima immortale. Mario Pirani, diversamente da Ronchey, è stato sempre "organico" (come si dice, con espressione orribile) alla sinistra. Fino all'invasione dell'Ungheria è stato anzi "organico" allo stesso Pci. Negli anni successivi, dopo aver diretto L'Europeo, è stato tra i fondatori di Repubblica. Ma anche Pirani, agli occhi dei Fortebraccio di tutte le stagioni, è stato e continua a essere un "cosmopolita", sia pure meno pericoloso di Ronchey. Esce in questi giorni una raccolta di suoi articoli apparsi negli anni Novanta, «È scoppiata la terza guerra mondiale?» (Mondadori, 300 pagine, 17 euro). E anche questo libro non sembra fatto per propiziarsi l'anima candida della sinistra. Esattamente come lo sguardo smagato di Ronchey, che spazia attraverso la storia dell'Italia repubblicana senza lasciarsi incantare dalle baiadere del falso sdegno, anche lo sguardo che Mario Pirani lascia scorrere su un decennio di "guerre" asimmetriche e di "scontri di civiltà" non è ideologico ma analitico, sottile ma non gesuitico, taglientissimo ma spassionato. Di questo giornalismo forte e chiaro, autorevole, argomentato, che si rivolge a quella parte d'opinione pubblica che ancora si rifiuta di partecipare al ballo in maschera delle nostre eterne guerre civili per finta, Alberto Ronchey e Mario Pirani sono tra i pochi testimonial ancora in servizio. Da noi il giornalismo e la politica - come diceva Michael Douglas, nella parte d'un presidente democratico, del suo rivale repubblicano - ormai sembrano saper fare soltanto due cose: attribuire a qualcuno "la colpa di tutto" e indicare ai cittadini un "nemico da abbattere". Ogni giorno la stampa e le tv (con aria di perfetta innocenza, come se questo particolare Frankenstein non avesse nemmeno l'ombra d'un creatore) mettono in scena la commedia d'uno "scontro di civiltà" tutto interno all'Italietta: una "guerra asimmetrica" combattuta sul palco dei talk show e negli articoli di fondo, dove l'arte del distacco è per lo più bandita e la parola "Avversario" è sempre pronunciata con la maiuscola, come dagli esorcisti hollywoodiani. Alberto Ronchey e Mario Pirani sono di un'altra scuola. Non dicono le stesse cose. Dicono anzi cose diverse. Però le dicono con la stessa precisione e sobrietà. Quando invocano la ragione, è della ratio illuminista che stanno parlando, non della Dea messa in ghingheri dai giacobini. Pirani, nei suoi articoli sulle guerre dell'ultimo decennio, non è mai allineato con le posizioni

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