Se il profitto fa la corte alla bellezza
Settis ci dice molte cose: anzitutto, ci fa capire come quel che noi chiamiamo "civiltà occidentale" sia diventato di fatto un linguaggio universale, se un fumetto giapponese assume il nome di Nausicaa e se il mullah Omar, nel 2001, paragonava gli Usa a Polifemo. D'altra parte, se la cultura "occidentale" detiene e ha saputo diffondere in tutto il mondo l'idea del "classico", cioè una certa idea del Bello, c'è da chiedersi che cosa sia in sé e per sé il Bello. Il "classico" non è un paradigma che serva a decifrare il passato (difatti, nell'antichità e nel medioevo un senso del "classico" non c'era): serve al presente, in funzione del futuro. Il romanticismo ha introdotto nel sentimento occidentale della Bellezza molti valori ch'erano, in realtà, ispirati alle culture che allora si chiamavano "primitive" o all'Oriente (che, in realtà, sono gli Orienti: molti). Dopo Basquiat, noi guardiamo in un modo differente alla cultura africana o a quelle dell'Oceania: sentiamo di essercene appropriati, ma al tempo stesso abbiamo coscienza del fatto che esse ci hanno in qualche modo "invaso". Tutto ciò ci riporta al discorso sulla Bellezza. Stimo molto Vittorio Sgarbi, ma non al punto di farmi propagandista del suo partito; e temo che oggi di nuove forze politiche ci sia forse bisogno, ma che il catalizzatore estetico che piacerebbe a lui non possa esser destinato a divenir centrale. Purtroppo? Chissà: magari, forse sì: è un peccato. Ma è un fatto che la cultura e la bellezza contano sempre di meno se non vengono avvertite come funzionali a progetti suscettibili d'incanalare investimenti e di crear profitto. A Firenze, l'amministrazione di centrosinistra accetta senza batter ciglio che gli Uffizi vengano infestati da un'invadente pubblicità della Benetton: i moderni Mecenati non hanno gli scrupoli e il senso della misura di quelli d'un tempo, non si contentano di una scritta sul marmo o di un'arme araldica pudicamente scolpita in un angolo. E senza soldi, non si fa cultura. Al contrario, quando i soldi mancano la cultura sparisce: i primi tagli ai bilanci riguardano sempre i servizi sociali e le iniziative o le istituzioni culturali. E allora, è sul serio necessario cambiar sistema e mentalità, in Italia. È inutile dichiarare solennemente che la cultura è il nostro petrolio e che i musei sono le nostre General Motors, se poi non si agisce di conseguenza: cominciando dal costruire fra noi e in noi una coscienza del valore assoluto e autentico di queste ricchezze. Una coscienza della quale siamo comunitariamente privi. Si è varato da parte del ministero per i Beni e le Attività Culturali un nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio, che semplifica e razionalizza la selva giuridica relativa alla tutela del nostro patrimonio artistico e ambientale. Ma attenzione: i tempi stringono, molte sovrintendenze si trovano a corto di personale organico e di mezzi, il demanio statale possiede una quantità di beni che ora possono essere alienati e, per volontà di Tremonti che vuole far cassa, l'agenzia del demanio e il ministero stabiliranno quali beni possono esser venduti e le sovrintendenze avranno solo quattro mesi per opporsi alla vendita di alcuni di essi. E allora, Sgarbi forse non ha del tutto ragione, però ha delle buone ragioni. Qui le leggi non bastano: occorre gente all'altezza per vigilare sui rischi delle svendite e degli scempi. Bisogna rispettare il carattere dei nostri luoghi d'arte e di bellezza, quindi saperlo interpretare e rivivere. Bisogna liberarci dalle superstizioni del "nuovo", del "firmato" e delle "grandi opere" che sarebbero cose buone comunque e a qualunque costo. Altrimenti si producono mostri come l'inarrestabile passerella di Izuzaki agli Uffizi di Firenze, che nessuno vuole ma che si farà comunque perché ormai il malanno è avviato.