di FRANCESCO PERFETTI TEMPO di bilanci.

È possibile, adesso, quasi in un ideale viaggio sentimentale, tentare, con lo strumento dell'autobiografia, di schizzare i tratti della biografia di una intera generazione. È quanto ha cercato di fare Salvatore Scarpino, giornalista e saggista ben conosciuto, con il suo suggestivo volume dall'ammiccante titolo «Seppellite Mussolini. Un dramma italiano da Salò alla Seconda Repubblica» (Boroli Editore, 232 pagine, 19 euro): volume che si sviluppa seguendo il filo della memoria, ma facendo emergere, con forte capacità evocativa, più che i fatti, le sensazioni e le immagini. L'autore appartiene alla generazione degli italiani nati mentre la guerra stava concludendosi, quella generazione cresciuta, soprattutto nei primi anni, in un clima nel quale gli echi della guerra civile tardavano ad affievolirsi e si caricavano invece di tossine ideologiche. Dalla sua Calabria, il giovanissimo Scarpino, imbevuto di una cultura nazionale assorbita dalle letture della immensa e disordinata biblioteca paterna e dai discorsi del circondario, vedeva un'Italia forse minore, più racchiusa in se stessa, nella quale giungevano affievoliti gli echi dell'Italia maggiore alle prese con i problemi della sopravvivenza o della ricostruzione morale e politica, oltre che economica. Nella provincia, soprattutto nella provincia meridionale, certe dure contrapposizioni ideologiche arrivavano stemperate, anche se la vita provinciale non era immobile e si partecipava, con passione, ai comizi dell'una e dell'altra parte. Scarpino, come tanti della sua generazione, aveva cominciato, già negli anni Cinquanta, a frequentare la politica saziandosi di retorica nazionalista e di rituali nostalgici, probabilmente senza un vero approfondimento critico. Poi le cose erano cambiate. Il clima degli anni Sessanta si era fatto più pesante per i giovani che gravitano nell'orbita di destra. I fatti di Genova non avevano solo bloccato il processo di avvicinamento della destra alle istituzioni e alla dialettica democratica, ma avevano eretto un vero e proprio muro ideologico, il cosiddetto arco costituzionale, che aveva espunto dalla società politica tutto un mondo che si vide, e si sentì, condannato a una sorta di esilio morale nella sua stessa patria. In quel 1960, ricorda Scarpino, «gli elettori della destra erano i vinti, i reietti. Figli di un minore dio politico che da quel rifiuto furono indotti a rafforzare un interiore senso di estraneità alla polis, come se fossero accampati attorno al sistema senza potervi entrare». Quel senso di estraneità e isolamento, quel sentirsi "stranieri in patria" (e stranieri, a mala pena, tollerati) spinse molti giovani della destra - e Scarpino fu fra questi - a ripiegare verso forme di individualismo antipolitico, che facevano loro cercare una nuova ideale (e non realizzabile) patria in un passato che recuperava gli "sconfitti", dando loro una patina di nobiltà. Così, nella destra italiana di allora, nascevano o tornavano simpatie vandeane e legittimiste, illusioni premoderne o antimoderne. È un fenomeno ancora da studiare o da approfondire, quello di questa destra volta all'indietro, un fenomeno che esprimeva, a ben vedere, anche la paura di affrontare il presente e confrontarsi con esso. Era una situazione comoda all'interno di una realtà scomoda. Per molti si trattò di un momento di passaggio. Scarpino ricorda che, nel momento in cui cominciò a lavorare, ripromise a se stesso che avrebbe guardato la politica con distacco, da antenato e da postero di se stesso. Non si sentiva né fascista né antifascista. Si era liberato di Mussolini. I giornali, certo, ma soprattutto i giornalisti - da Nino Nutrizio a Indro Montanelli - con i quali ebbe la ventura di collaborare, Scarpino li tratteggia a tinte vivaci in questo bel libro, dal sapore e dal taglio di un amarcord. Un libro però che è stato possibile scrivere perché i tempi sono