Carlo Mazzantini racconta a «Il Tempo» come visse l'arrivo degli americani a Roma nel '44
Di tre fratelli che eravamo, uno che l'8 settembre si trovava in Sardegna era entrato a far parte dell'esercito del regno del Sud, mentre io e l'altro avevamo scelto la repubblica di Salò. Che impressione mi fece la Roma di allora? Terribile, non c'era nulla da mangiare, mia madre e mio padre vivevano col poco che gli garantiva la tessera annonaria, e soprattutto c'era in giro un'aria di disperazione e rassegnazione da far paura». E al momento della caduta in mani alleate? «Ero ritornato al Nord, e certamente fu un giorno drammatico, sapere che la capitale d'Italia, la Roma del trionfo e dei discorsi di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, con la folla sotto ad applaudirlo, era caduta. Voleva dire che la guerra era persa, anche se noi, a dire il vero, eravamo andati a Salò già sicuri della sconfitta, forse con qualche debole speranza nelle armi segrete dei tedeschi, nell'invincibilità della Germania, ma più certi di dover morire, con onore, che di vincere. Eravamo un gruppo di ragazzi sui diciotto anni in preda all'esaltazione, come tanti di noi che in quegli anni sono morti». Così Carlo Mazzantini - autore di quei bellissimi libri che si intitolano, fra gli altri: «A cercar la bella morte», oppure «I Balilla andarono a Salò» - ricorda i giorni della liberazione di Roma, nel giugno del 1944, in questa intervista per Il Tempo, a ridosso dell'incontro di ieri con Aldo Di Lello alla Biblioteca Ostiense, per il ciclo «Io c'ero - Roma, 4 giugno 1944, la Storia e le ragioni». Nelle sue parole scorre il dramma di una generazione sconfitta. «Fra le mie preoccupazioni in quei giorni c'era la sorte dei miei genitori, temevo delle ritorsioni nei loro confronti, dato che avevano dei figli che, come si diceva, erano andati con Mussolini. Anche per questo, come seppi dopo, i miei avevano per un certo tempo lasciato l'appartamento di via Poliziano per trasferirsi altrove". A Roma quando ci arrivasti? «Dopo il 25 aprile 1945. In pratica avevo vissuto due volte l'8 settembre, quello della resa dell'Italia, e la partenza di Mussolini, di Pavolini e del governo di Salò da Milano, senza lasciare dietro di loro alcun ordine preciso su cosa si dovesse fare. Con un piccolo gruppo di amici, in quella Milano tragica, avevamo cercato di resistere all'intimazione di resa che ci era venuta da un reparto di partigiani. In seguito ci eravamo rifugiati all'ultimo piano di un palazzo, dove un prete ci aveva raggiunto, scongiurandoci di arrenderci. Io allora avevo mostrato un muro che si vedeva da una finestra, e gli avevo detto: "Se ci arrendiamo, è là che ci fucileranno". Dopodiché salì da noi un giovanissimo partigiano di Giustizia e Libertà, che ci promise salva la vita se ci fossimo arresi. E mantenne la promessa, seppure a fatica, dato che molti dei suoi ci volevano morti». E poi? «Venimmo rinchiusi in una sorta di prigione, sempre con la minaccia di tirarci fuori e fucilarci, cosa che non avvenne, quel giovane partigiano faceva sempre presente di aver dato la sua parola di salvarci la vita. In seguito...ci raggiunse la notizia della morte di Mussolini, e alcuni di noi piansero». Quando foste liberati? «Qualche settimana dopo, per l'intervento di alcuni militari americani, cosa che mi permise di raggiungere Roma facendo l'autostop su dei camion alleati. Debbo aggiungere che i miei genitori mi credevano morto, il che volle dire un'emozione incredibile al nostro incontro, che fu in un certo senso clandestino, non volevo che passassero dei guai per colpa mia». Le impressioni della Roma di allora? «La povertà degli abiti, la differenza vistosa tra chi si era dato al mercato nero e chi no, i soldati alleati ubriachi per strada, i grappoli di prostitute, i giornali strillati nelle piazze, e fra questi il primo giornale del Sud che mi capit