di ENRICO CAVALLOTTI ANCHE il genio conosce gli alti e i bassi.
E non sempre la notte viene percorsa da una ronda di stelle superfulgide. Maurizio Pollini è il miglior pianista italiano, tra i maggiori al mondo. Ciò non di meno, è un uomo sottoposto ai limiti che agli uomini ha imposto, chissà per farci quale dispetto, la natura. Fra tali limiti vi è quello di non essere un meccanismo infallibile, incorruttibile, insensibile agli effetti prodotti dalle cose d'intorno: e dalle cose che s'agitano nell'intimo. Basta un acciacco, un contrattempo, un pensiero molesto, una súbita e vaga stracca, o una girata storta, che Pollini, essendo un umano, non suona piú meravigliosamente bene come aveva suonato le stesse pagine magari la sera d'innanzi: quando quelle bubbole non gli rodevano punto: né ancora sussurravano all'orizzonte. Al Parco della Musica, l'altra sera, Pollini è stato eccezionale. Il pubblico gli ha tributato consensi trionfali, sí che lui di buon grado ha fatto bis per una ventina di minuti, infiammando vieppiú lo stato di commossa beatitudine e gratitudine dei presenti. Tuttavia la sua eccezionalità è parsa a noi come mitigata: come un sorriso meno dichiarato, allorché sia attentamente analizzato da chi lo accoglie e gelosamente intende fruirne. Non era certo un volgare problema di tecnica, di virtuosismo manuale, che in Pollini non esiste mai, o quasi mai. Né l'esito era da addebitare ad una fragile assonanza fra la sensibilità dell'interprete e talune opere in programma, quali i «Drie Klavierstüche op. 11» ed i «Sechs Kleine Klavierstücke op. 19» di Schönberg. Al contrario, Pollini darebbe la vita pur di salvare ed imporre ad ogni pie' sospinto alle platee di tutto il mondo queste spoetiche sciagure che l'orrido e dilombato Novecento non ha potuto evitare d'ingenerare a simulacro della morte della musica. No. Pollini l'altra sera era come lambito da un finissimo e quasi impercettibile sentimento della distrazione o divagazione, che a chi scrive è sembrato baluginare nella appassionatissima «Fantasia in do maggiore op. 17» di Schumann e, forse, anche nei «Ventiquattro Preludi op. 28» di Chopin. Le mani dominavano regali sotto il vólto compunto e rapito; l'esecuzione impeccabile; il pathos schumanniano e chopiniano divampante; l'intelligenza interpretativa affatto vivida nel rapportarsi alle poetiche della «Romantik», incardinate sul senso egemone dell'Io, sui travagli dell'anima, sull'estasi lirica apparecchiata dalla rinomata coppia Eros e Thanatos, specialista in spezie, etc.... Eppure. Già, s'è detto sopra, e nulla c'è da aggiungere. Resta il fatto che un Pollini pur non al vertice delle sue possibilità artistiche si fa un sol boccone dei tanti pianisti che siamo soliti apprezzare, lodare, esaltare nei loro momenti migliori. Qui noi s'è cercato il pelo nell'ovo. O forse l'altra sera non era il Pollini ad esser róso da ipotetiche bubbole, bensí il critico che ne annotava. È vero, lo specchio dovrebbe riflettere un momento prima di riflettere l'immagine (Cocteau).