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di NATALIA POGGI PERCHÉ il Settantasette e non l'anno dopo, o dieci anni dopo? Che ci fanno ...

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Come tanti coetanei (di tutti i tempi) stanno tra di loro come monadi ottuse, guardando in cagnesco il mondo che li circonda. Adolescenti di provincia, quella umida e fredda del Nord, dicono parolacce e si compiacciono di farlo e hanno in mente una cosa sola: sesso. Che poi è anche amore e voglia di amare ma soprattutto richiesta di affetto. Gridano «Amateci» e sono pieni di solitudine, incomprensione, rabbia e voglia di evadere. Ci sono tutti gli ingredienti perché questo sia l'ennesimo racconto di una generazione «in fieri» i cui tormenti ed estasi sono dei passaggi obbligati, il pedaggio che si paga per diventare altro, quasi sempre peggio. È l'ultima grande occasione di purezza. Andava pure bene così se non fosse che Culicchia ha voluto storicizzare le elucubrazioni senza tempo di Attila e Zazzi proiettandole in un improbabile 1977. Con una patina in bianco e nero, la tv color era ancora una rarità nei salottini middle class, ha avvolto la scena. I due, e quelli di contorno, come novelli attori di una fiction un po' cialtrona, si sono infilati gli eskimo e pure le Superga di pezza (avremmo preferito le Clarks di camoscio, o meglio le loro imitazioni) e giù a slogan come «L'utero è mio e lo gestisco io» quando si parla di femministe. I fumetti? «Alter alter» e Andrea Pazienza. Le radio libere? Guccini, e Branduardi a tutta birra. Non poteva mancare la politica. Sullo sfondo, naturalmente. C'è ogni tanto una televisione che descrive scontri di piazza, ragazzi uccisi sui selciati, Celerini che sparano. Tutta la violenza di quell'anno, difficile e devastante, raccontata in un soffio. Chi lo ha vissuto non capirà l'arietta un po' sbarazzina con cui certi fatti vengono liquidati. E il colpo di scena finale, (ohibò la scoperta di una sorella brigatista, ormai uno stereotipo narrativo per ogni rievocazione fotoromanzata di quegli anni) li convicerà ancora di meno.

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