di GIAN LUIGI RONDI MAGHI E VIAGGIATORI, di Khyentse Norbu, con Tshewang Dendup, Sonam ...
UN FILM dal Bhutan, il piccolo Regno indiano arrampicato sulle falde dell'Himalaya orientale. Non è il primo, però, che arriva nelle nostre sale perché il suo regista, Khyentse Norbu, un monaco buddista ritenuto la terza incarnazione di un celebre lama tibetano, si è già fatto conoscere qui da noi nel '99 con «La Coppa», su un novizio quattordicenne che riuscì a convincere i suoi superiori ad introdurre nel monastero un televisore per poter vedere la partita Francia-Brasile nella finale dei Mondiali di calcio del '98. Là si metteva soprattutto l'accento sulle differenze fra la cultura orientale e quella occidentale, qui si va più a fondo, finendo per sostenere la prima contro la seconda. Il protagonista, infatti, Dondup, è un giovane funzionario in un piccolo villaggio sperduto fra le montagne che ha una sola aspirazione, quella di emigrare in America, un giorno, così, calzando vistose scarpe da ginnastica americane, si avvia verso una cittadina da cui potrà prendere le mosse per il suo viaggio. Però perde la corriera che doveva trasportarlo fin là e si ritrova su una strada in attesa di trovare qualche auto cui chiedere un passaggio. Dividono la sua sorte un vecchio venditore di mele, un monaco e un artigiano padre di una bella fanciulla. Nell'attesa — non di ore ma di giorni — il monaco, per intrattenere gli altri, racconta loro una favola di un giovane che, perdutosi in un bosco, irretito da una donna diventata sua amante, l'aiutava ad avvelenarle il marito. Realizzando, però, alla fine, che aveva fatto solo un brutto sogno. Un brutto sogno, in parallelo, non tarda a rivelarsi, ma da sveglio, anche quello di Dondup, che, innamorandosi della figlia dell'artigiano, decide di restare lì, nella sua terra, rinunciando a inseguire chimere lontane. Due storie parallele, che si fanno reciprocamente la morale, svolte dal regista con modi semplici, lineari, privilegiando, quando in entrambe si fa avanti l'amore, soprattutto gli sguardi e i silenzi. Con immagini splendidamente fotografate da un tecnico occidentale e con la partecipazione, di non professionisti che non faticano a conferire autenticità e sincerità alla verità cui si affidano sempre i loro personaggi: anche nei momenti simbolici, quando le metafore si sovrappongono al reale. Un film che forse può apparirci «distante», ma non privo certo di fascino.