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di DARIO ANTISERI ALLA Seconda Repubblica e ai suoi governi Giovanni Sartori dedica la prima ...

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Si tratta di un'analisi acuta e appassionata in cui il nostro più noto politologo fa vedere come «in Italia gli anni passano, ma i problemi ripassano anno dopo anno, largamente invariati». Invariati «perché sono sempre elusi, oppure perché un problema mal risolto è un problema aggravato che resta da risolvere». E un'altra cosa viene fuori dal libro di Sartori: «In Italia quando avvengono enormità non succede nulla. Anzi, quanto più un potere diventa straripante, tanto più si attiva un riflesso di genuflessione, di servilismo». Nel 1922 Ortega y Gasset, uno dei più geniali pensatori del secolo scorso, parlò di «Spagna invertebrata». Ora Sartori trova questa espressione «più calzante per l'Italia». A suo avviso, «il nostro è sempre stato, ed è restato, un Paese disossato. E un Paese disossato, senza vertebre, al momento della prova non reagisce: subisce». Come una denuncia, dunque, si presenta innanzitutto il libro di Sartori. Solo che tale denuncia non è il lamento di un rassegnato, quanto piuttosto un insieme di severi e motivati ammonimenti di chi seriamente si preoccupa davanti a concrete misure politiche che restringono o soffocano (magari inintenzionalmente) la libertà dei cittadini. In altri termini, il libro di Sartori è una chiara difesa delle ragioni della libertà. Scriveva, a metà degli anni Sessanta, Karl Popper: «Per liberale non intendo una persona che simpatizzi per un qualche partito politico, ma semplicemente un uomo che dà importanza alla libertà individuale ed è consapevole dei pericoli inerenti a tutte le forme di potere e di autorità». E, prima di Popper, Luigi Einaudi: «Liberalismo è quella politica che concepisce l'uomo come fine. Si oppone al socialismo come un mezzo per raggiungere fini voluti da qualcuno che sta al di sopra dell'uomo stesso, sia esso la società, lo Stato, il Governo, il capo». E proprio come quello di Popper o di Einaudi il liberalismo di Sartori si configura come difesa della libertà, responsabilità e dignità per le singole persone e pertanto come difesa della civiltà occidentale nell'accezione etico-politica del concetto giacché — egli scrive — «questa è la civiltà che ha conosciuto più di ogni altra — sì, al paragone con ogni altra — la "buona città", la città politica più umana, più vivibile, più libera, più aperta di ogni altra». E tra i pericoli che minacciano questa nostra «città politica più umana e più aperta di ogni altra» Sartori individua il «direttismo elettronico». «La videocrazia, afferma Sartori, porta soltanto a un populismo plebiscitario che è tutto demagogia e niente democrazia». Con il direttivo elettronico — egli scrive — «sparisce la democrazia "faccia a faccia" tra presenti che magari silenziano a urli chi dissente, ma che pur sempre interagiscono fra loro e che pur sempre sono in condizione, volendo, di parlare e di cercare una persuasione reciproca. Il direttismo elettronico mobilita la folla solitaria, una miriade di individui isolati e inerti che si rapportano solo al video, e che decidono in solitudine, premendo bottoni, di cose di cui non sanno né minimamente capiscono». Il direttismo elettronico — cioè «la politica "indiretta" bambinizzata e manipolata dal video» — «è un processo di formazione delle opinioni sterilizzato e monopolizzato dal solo "vedere", da un video che nulla spiega e che, espellendo le "astrazioni", espelle per ciò stesso il ragionare» — proibendo così quelle conoscenze necessarie per deliberazioni consapevoli. In breve: «Il futuro videocratico promette di essere un vortice vizioso di imbroglioni-imbrogliati dominati dall'incompetenza». Dinanzi ad uno scenario del genere Sartori si impegna nella difesa di un servizio pubblico radiotelevisivo non asservito né all'Auditel né ai partiti. Un servizio pubblico preda dei partiti è solo generatore di servilis

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