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Il trionfo di Abbado nella «Nona» di Mahler

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Ieri sera al Parco della Musica di Roma con la «Jugendorchester»

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La musica, invece, vive soltanto del proprio suono, al di fuori del quale non resta che la muta bizzarría di scarabocchî su insensati fogli pentagrammati: torme di rondini pietrificate su interminati fili ad alta tensione. Da Claudio Abbado, iersera al Parco della Musica sul podio della Jugendorchester, sono stati impressi eccezionali splendori di suono alla «Sinfonia n.9 in re minore» di Gustav Mahler: opera del 1910, chiusa, sovente oscura, percorsa da drammatici interrogativi, attratta misteriosamente da barbagli demonici, ma anche, d'improvviso, squarciata da strani ed ambigui trionfi sinfonialii. Abbado conta Mahler fra gli autori da sempre prediletti. Ne ha diretto e fatto conoscere le Sinfonie quando in Italia il compositore boemo non era ancora inflazionato come oggi. Ci confidò una volta il maestro che, senza porre l'accento sull'altissima perizia della scrittura, in Mahler s'agitano una "follia" ed una modernità di contenuti e d'espressione che al principio del secolo ventesimo non potevano essere compresi; né lo sono del tutto ai tempi nostri. Sostenuto ieri sera dagli eccellentissimi giovani dell'orchestra internazionale, Abbado ha eretto una «Sinfonia» votata al piú severo rigore del segno ed insieme all'illimitata libertà del gioco fantastico: fondendo il tumultuare di un profondo pathos all'estrinsecazione dell'assoluta razionalità che governa la struttura linguistica. Abbado non è un direttore asettico, alla maniera di Lorin Maazel, che per timore di sovrapporre la propria personalità alla sacralità dell'opera d'arte s'astiene da ogni intervento soggettivo. Ma non è neppure un direttore-divo, com'era ad esempio Karajan, il quale molta della musica che affrontava riduceva ad effigie della propria «Weltanschauung» decadentistica: non escluso Bach. A parte l'ineludibile virtuosismo, esatto dalla problematicità della strumentazione, e il parossismo che richiede la concertazione, l'entusiasmo che Abbado provoca nel pubblico sgorga tutto dalla musica che dirige: anche iersera, anzi, soprattutto iersera: memorabile evento coronato dalla commozione che traspariva in fine dai lunghi applausi indirizzati al maestro, agli interpreti, «responsabili» di quella musica vasta, ambigua, elusiva, mondata d'ogni enfasi. In specie il «miracolo» s'è compiuto nell'ultimo movimento, l'«Adagio», d'una dolcezza insostenibile. Sotto la bacchetta del maestro lombardo pareva che questa dolcezza dovesse accrescersi chissà fin dove: fino a quali esiti inesplorati. E la musica sembrava sublimarsi in una purità che non ammetteva alcuna esagerazione, né sfoghi sopra le righe, né confessioni incontrollate. Questa dolcezza che a poco a poco si dilatava, s'espandeva, cresceva, avvolgeva lo spazio, lo pervadeva ed impregnava di sé: e con esso procedeva ad avviluppare le anime degli umani quasi le volesse rimodellare ad una sorta di tenerezza utopica. Per alcuni minuti, dopo la musica, il silenzio ha signoreggiato nell'immensa sala, e nessuno osava interromperlo, e tutti erano coscienti di non poter ascoltare in vita loro una «Nona» mahleriana migliore di quella che ha avuto la fortuna d'ascoltare.

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