Romano: «Fu padre di molti comunisti»
Il suo obiettivo era creare una classe dirigente con strumenti che possono essere discussi e contestati, ma che avevano una fortissima capacità di raggiungere lo scopo. Fu anche straordinario organizzatore d'istituzioni culturali come l'Enciclopedia Treccani, la Direzione della Scuola Normale Superiore a Pisa, l'Istituto di Firenze sul Rinascimento e altri». Così lo storico Sergio Romano, autore della biografia Giovanni Gentile. Un filosofo al potere negli anni del regime, pubblicata vent'anni fa e ora riproposta da Rizzoli in una versione aggiornata (503 pagine, 19 euro), sintetizza la figura del filosofo siciliano assassinato il 15 aprile 1944 da un commando gappista in un agguato condannato dal CNL ma rivendicato dal Partito Comunista. Al professor Romano, che nella nuova edizione della sua biografia descrive Gentile come un ideologo del fascismo ma anche, paradossalmente, come un ispiratore della sinistra italiana, si chiede che genere di fascista fosse, se un burocrate pragmatico o un illuminato intellettuale. «Tecnicamente parlando - precisa Romano - non era neppure fascista. Quando il Partito gli offrì la tessera, nel 1923, l'accettò soprattutto perché credeva di poter esercitare un'influenza sul fascismo, sul governo e su Mussolini come ministro della Pubblica Istruzione. Stava mettendo a punto una riforma fondamentale per la scuola italiana, che nessuno era mai riuscito a realizzare in epoca pre-fascista». Che rapporti aveva col Duce? «L'interpretazione che Gentile diede del fascismo non era quella militante di chi aveva seguito il Duce sin dall'inizio. Tra lui e Mussolini, tuttavia, ci fu un rapporto personale molto stretto, che gli permise di mantenere intatta la sua autorità quando, dalla fine degli anni Venti, cominciò ad essere guardato con un certo risentimento dai membri militanti del Partito Fascista». Quanto al contributo dato da Gentile alla filosofia italiana del Novecento, come lo si può valutare? «Due gli aspetti interessanti della sua opera filosofica. La sua partecipazione, insieme a Benedetto Croce, a quella sorta di rivolta antipositivista che attraversò l'intera Europa all'inizio del Novecento e che oppose allo schema del pensiero positivista quello dell'Idealismo o dello Spiritualismo. L'altro aspetto importante del suo pensiero filosofico, che costituisce la sua originalità rispetto a Croce, è il suo essere un filosofo della prassi». Come si spiega l'astio della sinistra italiana nei confronti di Gentile, definito da Togliatti «corruttore di tutta la vita intellettuale italiana», «bandito politico e traditore della patria», sebbene la stessa sinistra si fosse appropriata di molte delle sue idee? «Questo atteggiamento va visto come una strategia politica di Togliatti. È vero, infatti, che la filosofia della prassi gentiliana esercitò grande influenza su una parte della giovane intellighenzia italiana che si sarebbe poi arruolata nelle file del comunismo. Paradossalmente, Gentile allevò una nidiata di futuri comunisti che, grazie a lui, poterono aderire al Partito con un bagaglio intellettuale molto diverso da quello dei loro confratelli europei». Nessuno della sinistra riconobbe a Gentile questo merito? «Gramsci fu consapevole del debito intellettuale che aveva sia con Gentile sia con Croce, ma Gentile fu combattuto dai comunisti come un nemico, soprattutto nell'ultima fase della guerra, perché aveva aderito alla Repubblica di Salò, ma anche perché era stato l'ispiratore di molti intellettuali comunisti. Togliatti lo trattò con durezza perché non voleva che sul futuro dei giovani comunisti che stava reclutando in quel momento pesasse l'ipoteca di una diversa paternità. In un certo senso tentò di uccidere la memoria di Gentile, compresa naturalmente quella della sua morte, perché l'assassinio di un filosofo difficilmente può avere giustificazioni». È vero che Gentile, quando fu ucciso, era molt