Garboli, lo storico che amava il romanzo
Potrebbe apparire un semplice gioco di parole, e tale incrocio invece sta a significare attraverso quale processo conoscitivo, e intuitivo, egli riuscisse ad offrire l'intera gamma di legittimazione e di collocazione di un autore, di un'epoca storica, di una contingenza particolare del creativo. Per queste ragioni, definirlo crociano, marxista o che altro, riesce molto difficile, avendo lui scelto la vita difficile e ambigua (nel senso positivo del termine), dell'anomalia come misura di confronto e di individuazione di quanto il prodigio della scrittura potesse offrirgli. In questo senso, se un nome è lecito far emergere da parentele vicine e remote, di certo quello di Giacomo Debenedetti maestro indiscusso di scrittura critica e illuminante, può servire meglio di ogni altro ad una precisa individuazione. Alla molteplicità accattivante del suo linguaggio critico rispondeva sempre una capacità molto acuta di stabilire, e costruire, i racconti più suggestivi e fascinosi, capaci di riconoscere le motivazioni di un incontro comparato piuttosto che quello di una divisione fine a se stessa. Inoltre, la musica, e la forte potenzialità di interferenza nella sua scrittura in proprio e in quella dello scrittore in esame. Non c'è alcun dubbio che lo studio «matto e disperatissimo» di un poeta come Giovanni Pascoli è servito a lui come referente essenziale per intendere, e far intendere, in quale misura nel poeta di Castelvecchio il suono e il segno esprimessero un referente simbolico che — è noto — rese il poeta di «Myricae» uno dei più sublimanti esempi di incrocio fra radice sonora della parola e proiezione fascinosa all'interno del nucleo domestico, di un tessuto «contadino» soffuso di odori, sapori, slanci di vitalità vincente. Era necessario possedere una forte vena narrativa per conseguire risultati di questo tipo, e perciò tanti suoi scritti potrebbero facilmente definirsi racconti critici, sulla scia dei memorabili saggi su Proust e Joyce del suo vero maestro, Giacomino Debenedetti. Per tutte queste ragioni, Cesare Garboli era un critico che andava a scegliersi con minuta attenzione argomenti e soggetti che potessero servire a rendere la sua idea di letteratura: i nomi di Dante, Moliére, di cui è stato insigne traduttore, e ancora Leopardi, Pascoli, Delfini, Penna, Montale la dicono lunga su certi privilegiamenti sui quali poi lavorare di fino, a caccia di quelle tessiture interiori e interne che ognuno di questi grandi sapeva offrirgli. Un titolo come quello dell'esordio nel 1971, «La stanza separata», offre già una precisa indicazione, e così pure i saggi e le traduzioni di Moliére del 1976, i «Penna Papers» scritti fra il 1984 e il 1996, e andando avanti negli anni gli «Scritti servili», del 1989, «Immagini del Novecento» del 1990. Non trascurabile, anzi di primo piano, la sua azione di esegeta attento e sicuro, da solo o in collaborazione con Niccolò Gallo per quanto riguarda i «Canti» di Giacomo Leopardi (1962), e il «Journal» inedito di Matilde Manzoni, il carteggio fra Berenson e Longhi «Lettere e scartafacci», del 1993: e infine la sistemazione critica del pamphlet seicentesco anonimo contro la moglie di Moliére, «La famosa attrice» (1997). A coronamento di una vita di acuta ricerca critica, quell'essenziale Meridiano mondadoriano dedicato a Giovanni Pascoli, che davvero offre una parola definitiva sul grande poeta, non soltanto in chiave di forte autonomia innovativa, ma anche e soprattutto per il grande insegnamento che ha offerto a tutta la nostra poesia novecentesca.