Lui è un intellettuale di Corinto, lei pure è greca. Come in un'inchiesta, cercano di capire chi è Cristo
Coltivava un sogno ambizioso, quello di rinverdire le glorie della tragedia dei tempi di Eschilo e di Sofocle. Finora non l'aveva confidato a nessuno, ma esso occupava stabilmente il suo spirito. Ipparco aveva paura del mare, perciò non aveva voluto imbarcarsi su una nave per raggiungere la meta. Il viaggio a cavallo era lento, noioso ed esposto esso pure a pericoli di ogni sorta. Ormai era giunto nei pressi di Jerusahlaijm. Si vedeva la città in alto, su una collina brulla e stranamente squadrata. Le mura di pietre bianche erano abbacinate dal sole. Sopra di esse emergevano alcuni tetti, tra i quali spiccava per altezza quello del Tempio di Salomone. Ipparco non avrebbe voluto sostare in quella città, che sapeva dominata da tumulti antiromani e da rabbiose contese di natura religiosa. Lui, seguace di Epicuro e di Leucippo, credeva assai poco agli dèi, e le ansie religiose lo lasciavano indifferente. Come in molti greci, la sua mente e i modi di pensare erano limpidi, razionali e solari. Ma a Jerusahlaijm doveva salire per forza. Era stanco, affamato, tormentato da continui assalti di sonno. L'otre dell'acqua era ormai vuoto. Perciò una stazione in quella città s'imponeva, e la sua filosofia gli diceva che era meglio assecondare con animo lieto le necessità e il destino, piuttosto che resistere ad essi e soffrire. Quando fu nei pressi delle città vide lontano, o gli parve di vedere, in cima a una gobba di terra, tre pali scuri contro il cielo. Sotto pareva esserci una folla che si muoveva senza sosta, simile a un divincolio di termiti cui abbiamo distrutto il formicaio. Entrò in città e subito trovò una locanda, una specie di piccolo caravanserraglio dove v'era posto anche per i cavalli. Mangiò arrosto di agnello e si dissetò con un boccale di sidro. Poi si gettò su un giaciglio di paglia fresca per riposare. Si addormentò di colpo, ma poco dopo si svegliò, perché al piano di sotto v'era un rimescolio di voci concitate. Tentò di riprendere il sonno, ma non ci riuscì. Così discese la scala di legno e si avvicinò alla gente che discuteva ad alta voce e gesticolava. Poiché v'era una sola donna tra tanti maschi, Ipparco giudicò che fosse una di quelle che ogni uomo poteva avere con un piccolo gruzzolo di dracme. La chiamavano Niobe, probabilmente era greca anche lei. Era di forme aggraziate e i suoi lunghi capelli brillavano come fossero stati lucidati con qualche unguento. Ipparco l'avvicinò e cominciò a conversare con lei. Ma la cosa non era quasi possibile, perché nella locanda la babele delle voci andava crescendo. V'erano pure alcuni soldati romani. Il loro latino era incomprensibile, ma le loro frasi s'incrociavano con una sorta di furore, come colpi di spada. «Perché sono tanto agitati?» chiese Ipparco alla donna. «Non riesco a capire. Però lo intuisco». «Tutti in città sembrano molto inquieti e agitati. Tu sai cosa stia succedendo?» «Credo di sì». Nei pressi della città, su una collina chiamata «il luogo del teschio» erano avvenute tre esecuzioni capitali. Era questo l'argomento di cui tutti parlavano con tanta passione. E chi erano i crocifissi? «Tre ladroni da strada» disse in greco un mercante siriano. «Non tutti e tre. Pare che uno fosse una specie di predicatore. Un ribelle religioso e politico, detestato sia dagli ebrei che dai romani. Pare che volesse farsi re e sovvertire lo stato» aggiunse un altro avventore. «Aveva dei seguaci?» «Qualcuno. Anzi, diciamo pure che erano parecchi». Ipparco ebbe l'impressione che il suo disagio crescesse. Non aveva mai potuto sopportare quei predicatori febbrili e sgolati, che si proclamavano profeti, e passavano la vita nelle strade e nelle piazze, aggredendo la gente con le loro dottrine. Aveva sentito dire più volte che la Palestina era piena di individui di quel genere. «Quello che i romani hanno crocifisso non era così» disse Niobe, con voce velata ma ferma. «No? E com'era, allora?» «Parlava sempre in modi tranquil