L'eterno ritorno della nostalgia
Da sempre e d'istinto: e cioè sin da bambini. Molto, molto tempo prima che i complessi di colpa e le mode «radicalchic» portassero i cinematografari yankee a cospargersi il capo di cenere con i vari «Soldati blu» e i sinistri alternativi sposassero la causa dei nativi d'America, «ideologizzandola» contro l'Occidente. Salvo dimenticarsene, quando il loro urlatissimo terzomondismo decise di utilizzare altre icone. Noi stiamo dalla parte di Alce Nero, e cioè da quella dei codici sacrali e guerrieri cui conformare il proprio stile di vita. Dunque, magari poeticamente e fanciullescamente, guardiamo all'indiano come a un «cavaliere» della prateria che difende radici, identità e valori contro le profanazioni del progresso; come a un «samurai» che sa bene che in nome dell'onore, della lealtà, della fedeltà si può sacrificare la vita. Tutto questo si chiama Tradizione. Ed è culturalmente «trasversale»: dunque, non è una questione di Oriente o di Occidente, ma di visione del mondo. O, se si preferisce, di una certa maniera di «stare» al mondo. Oggi, sono in tanti a starci male. Possiamo liquidare il loro disagio come una generica scontentezza che si tinge di un infantile, velleitario desiderio di avventura; e ridicolizzare il prof., il bancario, lo studente che oppongono alla miseria di cinque giorni all'insegna della mediocrità il sabato o la domenica consacrati ai «giuochi di ruolo». Ma si può davvero irridere a questo slancio verso il sogno, di fronte al benedicente filologo Tolkien, che, inanellando di molteplici prove il viaggio dei suoi hobbit, afferma e conferma l'indiscutibile diritto all'«evasione» da parte del «prigioniero»? Ovviamente, no: l'avventura, con i suoi richiami ad «avvento» e ad «evento», dunque ad un «avvenire» significativo perché fondato su «simboli» eterni, ha una forza irresistibile. Ed è «giusto» che sia così, perché nell'«umano troppo umano» c'è una grande aspirazione a ciò che lo trascende. Ecco il motivo per cui un romanzo come «L'ultimo dei Mohicani» di James Fenimore Cooper è anacronistico e insieme straordinariamente attuale. È anacronistico perché Occhio di Falco, Chingacook, Uncas, gli Irochesi, i Mohicani, i soldati francesi e inglesi che, nel 1757, danno vita a una grande epopea «western» con tutti gli ingredienti del caso; tutti questi personaggi, dicevamo, con quel che dicono e con quel che fanno, appartengono a scenari terribilmente «datati»: ed erano datati anche quando, nel 1826, furono evocati da James Fenimore Cooper. Giovane di belle speranze, nato a Burlington, nel New Jersey, da un ricco proprietario terriero, studente brillante ma turbolento all'Università di Yale (dalla quale fu espulso), convertito alla letteratura verso i trent'anni, quasi per scommessa, ma poi soddisfatto della sua scelta (il «caso» che diventa «causa»: Borges docet) e, ben s'intende, del proprio successo. I figli dei pionieri, infatti, avevano bisogno di un'epica e se c'era chi riempiva con qualche memoria eroica il loro ottimistico slancio di baldanzosi costruttori del Nuovo, lo si poteva salutare come un Omero che imbandisse miti e riti sulla tavola del Futuro. Fratello del Sogno Americano e della Nuova Frontiera: dal passato all'avvenire,in un balzo; l'inattuale e l'attuale che si mescolano; l'anacronismo che viene a fecondare l'«hic et nunc», con tutte le sue attese. Oggi, nel Villaggio Globale di Internet, siamo chiamati a chiederci se e perché Fenimore Cooper sia «attuale». Sì, ci affascinano e ci avvincono battaglie e fughe, inseguimenti e combattimenti; e stiamo in ansia; e, nel nostro mondo che non si sorprende di nulla, ci lasciamo sorprendere dal vecchio Fenimore che sa ben dosare gli «effetti speciali»; e l'eloquenza e la proba compostezza, la sobria dignità, la schiettezza eroica del bianco filo-indiano Occhio di Falco e dei suoi due amici mohicani ci affascinano allo stesso modo di quelle di un eroe greco; ed emozione e compassione per la «fine annunciata» delle genti pellerossa si fanno sentire, e quasi pesano su d