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La faziosità ideologica montò in cattedra

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Anticipiamo un brano dal saggio su «Censura e proscrizioni» di Paolo Simoncelli, docente di Storia Moderna a «La Sapienza» di Roma. di PAOLO SIMONCELLI L'INTERVENTO di Angelo d'Orsi sul primo fascicolo di "Micromega" del 2004, «Basta con la manipolazione dei fatti storici» (ripreso, commentato, rilanciato dalla stampa quotidiana e periodica e da bollettini on-line del febbraio scorso) merita in proposito attenta riflessione sia nella fattispecie delle obiezioni sollevate contro esponenti d'un deprecato "revisionismo", sia nel metodo passionale di condanna e additamento apodittico: appunto un'iscrizione irrevocabile nell'Indice dei libri proibiti del politically correct. In sintesi, la polemica di d'Orsi è diretta a negare la tesi dell'egemonia culturale marxista, specificamente comunista, che nel secondo dopoguerra avrebbe attanagliato i gangli della libera produzione scientifico-letteraria imponendo, soprattutto nel campo della ricostruzione storica, un canone interpretativo unico e non discutibile, fatto di certificazioni omologanti e silenzi obbligati, salvo che a forare il velo del conformismo non fosse - ma solo di recente, aggiungo io - qualche autorizzato esponente della sinistra storiografica, da Pavone a Pansa, per intenderci. Cadute di stile evitabili (come il "non c'è fine alla vergogna nazionale" riferito all'attribuzione del premio Acqui, sezione Tv, ad Alessandro Cecchi Paone, esclamazione ben poco garbata, a maggior ragione se proveniente da un insignito, nel 2000, dello stesso premio per la sezione saggistica; o gli epiteti di "schietto reazionario" riferiti a Rosario Romeo, ecc.) testimoniano la passionalità dell'autore, inficiando tuttavia la freddezza del saggista. I riferimenti polemici a "quali strumenti" fossero stati utilizzati e a "quali vie" fossero state percorse per giungere a tale egemonia, portano infatti d'Orsi a puntare la sua attenzione sulle cattedre universitarie "di discipline storiche politicamente "insidiose" dominate, a suo dire, "da cordate accademiche moderate, quando non conservatrici", in cui De Felice avrebbe avuto un ruolo fondamentale. Nella fattispecie, le vicende accademiche della storiografia marxista dell'immediato ultimo dopoguerra, fecero rabbrividire financo il (sopravvenuto) patriarca di quella storiografia, Delio Cantimori. In quegli anni, la ricostruzione del percorso storico-politico dell'unità nazionale, l'itinerario risorgimentale, non fu ripensato per impegno ideologico? E non andarono in cattedra i Saitta e gli Spini, i Berengo e i Villari, i Manacorda e i Ragionieri? Nessuno storico marxista vinse dunque un concorso universitario? E, de minimis, non fu quella stagione di studi e fazione e riflessione, vero e proprio revisionismo che, condito da polemiche già allora personali, aggredì la vecchia interpretazione sabaudista e autoctonista del Risorgimento nazionale dei Rota e degli Ercole, e la tradizione liberale dei Ghisalberti e Chabod? E perché Volpe, che di quel revisionismo risorgimentale era stato robusto protagonista, non dovette più essere ricordato? Ho voluto fare questo cenno a Volpe perché sposta l'attenzione a "strumenti egemonici" più efficaci delle cattedre universitarie (la cui continua proliferazione ne ridusse ben presto il prestigio e la funzione formativa) citate da d'Orsi che tuttavia dimentica di ricordare che De Felice, non più comunista, fu vittima di una "manovra" di storici marxisti che nel 1961 gli negarono la libera docenza. A riconoscere l'importanza del ruolo di Volpe nella storiografia italiana, era stato... Antonio Gramsci. Ma la giovane generazione marxista ed entusiasta che s'era formata religiosamente sui testi gramsciani editi dal 1948, non poté leggere quel passo, così come molti altri di inquietante natura politica sui contrasti col Comintern, di insidiosa attribuzione di responsabilità individuali e di partito (comunista) per la propria detenzione; quella generazione lesse un G

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