Non nascondiamoci più dietro l'Olocausto

Poi, un'immersione nell'isolamento e nella ricerca di calore della letteratura, e ancora, un ritorno ai luoghi della sofferenza e della paura, con il cuore gonfio di ricordi e malinconia, e nella mente le immagini vive di brandelli di vita felice. Norman Manea, lo scrittore romeno esule volontario negli Stati Uniti dall'86, già autore di ««Ottobre ore 8», «Un paradiso forzato», «La busta nera», «Clown, il dittatore e l'artista», invita a non indugiare sugli orrori della persecuzione antisemita negli anni bui del nazismo, proprio lui che ne è stato piccola vittima riuscendo tuttavia a sopravvivere. E il suo percorso, che si è fatto lungo, è così scandito dai tre grandi solchi dell'esilio come condizione interiore, della letteratura come rifugio salvifico, del ritorno come imperativo dell'anima. «Il ritorno dell'huligano», suo nuovo libro edito dal Saggiatore, racconta soprattutto questa istanza dell'uomo ferito, di tornare sui luoghi della passata sofferenza ma anche delle proprie radici che nel quotidiano vivere «lontano», possono continuare a ramificare solo nella lingua di appartenenza. Manea, quale senso della morte può scatenarsi in un bimbo che è stato prigioniero nei campi di concentramento? «Ci si augura che gli esseri umani siano diversi anche nelle loro reazioni. Nel mio caso, il campo di concentramento è stato una sorta di educazione alla sensibilità. Io sono stato formato e deformato da questa esperienza; probabilmente questo mi ha reso più sensibile alla sofferenza della gente, alla sofferenza in generale. Ciò che cerco di fare in questo libro tuttavia è dimostrare che noi non siamo solo una tragedia collettiva. Se la vita continua, cosa che è successa nel mio caso, ci sono molte altre cose come la bellezza, la crescita, la gioia, la cultura, l'iniziazione, che, seppure diverse, vanno a comporre l'insieme di questa nostra geografia». Fino a che punto si portano addosso gli effetti di una tale tragedia? «È difficile scoprire esattamente dove sia nascosta questa vecchia ferita e quando mostrerà ancora il suo effetto. Ma noi non siamo solo una ferita aperta. Credo che dovremmo evitare di ridurre la vita ad una grande disgrazia, anche se questa disgrazia è stata travolgente». Lei insegna in un college negli Stati Uniti. In che modo rassicura i suoi allievi sul futuro? «Innanzitutto nessuno può essere rassicurato da nulla. Anche perchè ciò che i giovani non vogliono è rivivere la stessa esperienza della generazione precedente. Da insegnante, l'effetto pedagogico che si può sperare di ottenere si raggiunge con la propria intelligenza, cultura, capacità, ma non certo con la tua ferita aperta che sta dietro a tutto questo e che gli studenti possono anche non conoscere perchè si tratta di un'altra storia. L'effetto migliore è riuscire ad essere esempio per ciò che i giovani vorrebbero essere, con o senza questa tragedia». Lei è venuto in Italia di recente per ricevere il Premio Nonino. Poi è tornato a Roma. Che cosa le trasmette questa città? «È tra le più belle del mondo. Mi trasmette un certo ritmo, vibrante, mi trasmette solarità, un modo di vivere cordiale e aperto, quasi da intrattenimento. Un qualcosa di cui vien quasi voglia d'essere parte».