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Tra due giorni «The Passion» nelle sale italiane. E torna «Il Vangelo secondo Matteo»

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In questo stesso periodo, la Settimana Santa, tornerà ad uscire «Il Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini realizzato esattamente quarant'anni fa e presentato difatti alla Mostra di Venezia del '64. Ho tenuto a rivedere anche quello, in una copia restaurata da Mediaset con il concorso del Centro Sperimentale di Cinematografia. Il confronto, non ci sono dubbi, è a favore del film di Pasolini. Gibson, infatti, come appunto rilevato, si è servito della potente macchina hollywoodiana, a sua disposizione anche con effetti speciali e specialissimi, per privilegiare, nella realizzazione, «il più realistico degli orrori», in linea con quel suo gusto per l'eccesso già rivelato nella famosa pagina della tortura del suo «Braveheart». I Vangeli li ha seguiti alla lettera, e gliene ho dato merito, con l'animo del credente, ma avendo deciso di trattarne le pagine più terribili, quelle della Passione, appunto, che si sono ascoltate nelle nostre chiese proprio ieri, Domenica delle Palme, ha ritenuto di dover portare tutto al diapason, proponendoci, specie al momento della crocifissione, delle pagine che non ho potuto a meno di definire «insostenibili» per la loro atrocità. Del tutto opposta la cifra, narrativa e stilistica, scelta da Pasolini. Il Vangelo di Matteo lo racconta fin dall'inizio, con la Nascita di Gesù, la fuga in Egitto e, dopo, i primi Apostoli e la predicazione, rievocati in modo conciso, con un realismo asciutto, nello stesso Sud italiano, soprattutto tra i «sassi» di Matera, in cui anche Gibson ha ambientato il suo film. Quando però è arrivato ai capitoli sulla Passione, dal Getsemani al Calvario, non solo ha scelto di evitare gli accenti forti ma, addirittura, con una invenzione cinematografica molto studiata, li ha rappresentati, anziché da vicino, in dettaglio, sempre da lontano, addirittura in «campo lungo». Da una parte, altra invenzione di gusto, il Sinedrio e i notabili, abbigliati come nella nostra pittura rinascimentale, dall'altra, il popolo, gli apostoli e Gesù visti come se uscissero da cronache contemporanee, con gli stessi abiti grezzi di cui, dieci anni dopo, si sarebbe ricordato Rossellini per il suo «Messia». Mentre — solo riferimento all'emozione, senza che mai ci si soffermi sul sangue — la colonna sonora, accanto alla musica originale di Bacalov, ci fa ascoltare Mozart e Bach (quello, naturalmente, della «Passione secondo Matteo»), frammisti agli echi scuri della «Missa Luba» congolese. La chiave diversa, anzi opposta, dei due film la si rivela fin dalla didascalia iniziale. Gibson cita la profezia di Isaia che già secoli prima vedeva Gesù «come agnello condotto al macello», Pasolini dedica il suo film «alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII». Due formule che non potevano essere più antitetiche. Un solo rilievo, oggi, rivedendo il Vangelo di Pasolini. Lo stesso che, su queste colonne, avevo sentito di dover fare scrivendone quarant'anni fa da Venezia: la durezza del volto dell'attore spagnolo Enrique Irazoqui reso anche più duro e spesso più maledicente che non benedicente dal doppiaggio in più momenti quasi aggressivo del nostro caro Enrico Maria Salerno. Lo sublimavano però molte immagini. Da citare, per tutte, le tante, e quelle allora in primo piano, con cui, rileggendo sia pure da laico Matteo, Pasolini riproponeva i momenti più salienti della Predicazione, e non solo il Discorso della Montagna. Grande cinema. Che coinvolge più del sangue fatto versare a fiumi da Mel Gibson.

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