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«Siamo figli dell'assurdo di Ionesco»

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Tra i pochi che sono stati capaci di rappresentare la disperazione dell'uomo contemporaneo. Ha cantato la gioia e la tristezza che permeano la realtà che ci circonda, affidando alla capacità mimetica del teatro che trasforma l'uomo in attore e l'attore in uomo, la virtù terapeutica di liberarci da ogni condizionamento di ordine sociale, etico, ideologico. Eugène Ionesco, il commediografo rumeno morto il 29 marzo 1994, ci ha lasciato con le sue commedie - dalla «Cantatrice calva» al «Rinoceronte», dalla «Lezione» a «Vittime del dovere», da «Giacomo o la sottimissione» a «La sete e la fame» - un patrimonio inesauribile di riflessioni e di sorrisi. Sì, perché tutto sommato il suo è stato anche un teatro umoristico, seppure tristemente umoristico. A ricordarlo, a dieci anni dalla morte, è Glauco Mauri, il grande attore che di Ionesco è stato non solo un apprezzato interprete, ma anche un amico trentennale. Qual è stato l'ultimo lavoro di Ionesco che lei ha messo in scena? «"Il rinoceronte", di cui, oltre a interpretare il ruolo di Jean, il protagonista, ho curato anche la regia. L'ho ripreso quattro anni fa con la mia compagnia portandolo in tournée per un anno e mezzo. Credo proprio che sia la commedia di maggior successo di Ionesco». Molti critici sostengono che nel teatro di Ionesco ci sia troppo intellettualismo, tanto da fargli perdere forza rappresentativa. È d'accordo con questa tesi? «Certamente i suoi primi lavori sono i migliori, più incisivi rispetto ai drammi scritti nella maturità. Non c'è dubbio, tuttavia, che sia stato uno degli scrittori e commediografi più importanti del Novecento, non soltanto per la sua capacità descrittiva, ma principalmente per l'attenzione che ha dedicato alla messa in scena delle sue opere, alla loro interpretazione. Con la sua agile intelligenza, il suo stile sempre graffiante, il suo gusto spiccato per il grottesco, ha influenzato moltissimi attori, compreso me. Non mi sembra che le sue opere pecchino di un eccessivo intellettualismo, e di certo esso non ha intaccato la forza espressiva delle sue commedie». Lei ha conosciuto personalmente Ionesco. Quando vi siete incontrati? «Era il 1961, una domenica pomeriggio, e al Teatro Manzoni di Milano rappresentavamo la prima volta in Italia un suo lavoro, appunto "Il rinoceronte". Ionesco era in platea, e dopo lo spettacolo venne nel mio camerino per farmi i complimenti». Che tipo di persona era? «Era un uomo adorabile, di grande umanità, e soprattutto un uomo di spirito. Ai miei occhi appariva una figura a metà strada fra il clown intellettuale e l'uomo comune. Lo ricordo sempre in compagnia della moglie, una donna piccina che non si staccava mai da lui. Tra noi sbocciò subito una grande amicizia, che rimarrà sempre uno dei ricordi migliori della mia vita professionale e umana. Gli piacevano i tagli che davo ai copioni dei suoi lavori. Una volta, dopo avermene chiesto una copia, la lesse e poi la rimise sul mio tavolo. Fu un amico a farmi notare che nell'ultima pagina del fascicolo c'era una dedica, nella quale Ionesco mi spiegava come avessi contribuito a fargli capire meglio il carattere di uno dei suoi personaggi. Entrammo talmente in confidenza che mi diede addirittura il suo indirizzo di Parigi, in Rue Rivoli». Cosa ha amato di più della sua produzione, e cosa, invece, non le piaceva? «Se dovessi trovare dei difetti nelle sue opere, citerei di nuovo la scarsa qualità degli ultimi lavori. Sia chiaro, si tratta sempre di un gigante della drammaturgia, ma nelle ultime opere non c'è la luminosità degli inizi. A colpirmi, in ogni caso, è l'umanità dei suoi personaggi, il gusto per un grottesco che è del tutto particolare, diverso dalla "violenza" di Samuel Beckett. Nel sottile gioco di parole, azioni e intuizioni in cui sono coinvolti, i protagonisti di Ionesco indossano sempre una maschera, ma esprimono sempre la verità». Quale è il ruolo del non senso, nel teatro di Ionesco? «Lo scrittore rumeno

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