Mercoledì all'Auditorium di Roma l'ex leader delle «teste parlanti»
David Byrne psyico artist
L'ex leader dei Talking Heads ama sfidare le falsificazioni della pubblicità attraverso mostre-spettacoli-concerti che coinvolgono non soltanto gli appassionati di rock, ma anche tutti coloro che, cresciuti con la sua musica, oggi delusi ma non nostalgici, sentono il bisogno di altri stimoli. Il suo è psicorock del futuro che guarda con un certo disincanto alla scena attuale, all'interno della quale è pur sempre considerato un maestro, un artista costantemente tenuto in grande considerazione. 51 anni, scozzese trapiantato non troppo felicemente in America, David Byrne (che mercoledì 24 sarà in concerto al Parco della Musica di Roma) continua a viaggiare in campi di scrittura ambiziosa, tra avanguardia, macchinazioni elettroniche e scorci ambient. Camaleontico, mutevole incrocio di egocentrismo e timidezza, a guardarlo bene sembra una specie di viso senza espressione alla Andy Warhol, adora raggiungere tutta quella gente che non è stato possibile sensibilizzare quando era leader dei Talking Heads: «Dopo che sono apparso sulla copertina di Time la gente ha subito pensato che io sia un pezzo grosso. Cominciano a guardarti per vedere se sei cambiato. Ma non c'è niente da vedere. Anche i Talking Heads erano un bel mito, quasi un'istituzione egualitaria, democratica, meravigliosa... Non era vero allora, non è vero adesso. Nei gruppi c'è sempre qualcuno che non si sente valorizzato. Puoi solo sperare che le ineguaglianze si bilancino». Dichiarazioni amare, anche se i Talking Heads rimasero nella stessa formazione fino alla fine (Byrne, Chris Frantz, Tina Weymouth, Jerry Harrison), passando dal punk alle vibrazioni ad alto voltaggio della post disco, fino allo sfilacciamento di «Naked», album del 1988, zeppo di ospiti illustri (Mori Kantè, Johnny Marr, ecc.). Ora l'ex leader delle Teste Parlanti torna con «Grown backwards», pubblicato per la sua etichetta, Luaka Bop, con la quale ama scandagliare negli anfratti della world music, soprattutto fra Africa e Sud America. Cosa rimane del brillante sperimentatore che lavorava gomito a gomito con Brian Eno o con il regista satirico di "True stories"? Del primo quasi nulla, a meno che non si voglia considerare sperimentale la riproposta di "The man who loved beer" dei Lambchop o "Au fond du temple saint", tratta dai "Pescatori di perle" di Bizet. » invece possibile scorgere quel contrasto, quel caleidoscopio del più bizzarro Banale che caratterizzò "True stories", piccolo capolavoro del 1986, in cui il musicista in prima persona, improvvisandosi cicerone dinoccolato e imperturbabile, spider rossa e cappellaccio da cow-boy, vagava in una fittizia cittadina texana di nome Virgil alla ricerca di vecchi quadretti e brani western classici. La stessa lingua aguzza, sia pur ben mimetizzata, affiora in «Grown backwards» e anche se la musica non è integrata al divagare dell'azione rimane il sapore dell'assai poco texana tecnica dell'"understatement". Qualche perplessità arriva da «Un dì felice, eterea», primo atto della «Traviata», dove al di là dell'italiano inevitabilmente stentato (Byrne è comunque un buon conoscitore di artisti italiani, da Fabrizio De Andrè a Roberto Murolo) stona l'accoppiata Verdi-new wave, che ha già fatto inorridire il maestro Muti. Non è tanto la rilettura della storia musicale italica a lasciare interdetti - Byrne affrontò anche «The knee plays», un segmento dell'opera «The civil war» di Robert Wilson e i risultati non furono migliori - quanto l'inutile arditezza dell'ideologia sonora. Così è. Byrne ci tiene ad essere un musicista bifronte, desideroso di cimentarsi nelle evasioni, concedendosi incursioni in fondali a lui ignoti.