«Oceano di fuoco» ripropone la mitica marcia dall'Arabia all'Iraq. Il protagonista: «Ma Bush non c'entra»
È singolare perché Mortensen è tutto, ma veramente tutto, tranne che un divo-macho circondato da un'aura di irraggiungibilità non tanto alla Erroll Flynn, ma neppure alla Brad Pitt. Taciturno, con l'aria di uno che non ha grandi opinioni su nulla, e che tutto sommato è contento di non averne, Mortensen presenta «Hidalgo», in uscita dal 9 aprile: storia della mitica maratona che, attraverso tremila pericolosissime miglia di deserto dall'Arabia all'Iraq, fu vinta nel 1890 proprio dallo yankee Hopkins a cavallo del suo fido «mustang» indiano contro i migliori cavalli arabi schierati da un potente emiro del luogo (che nel film diretto da Joe Johnston è, tanto per cambiare, Omar Sharif). Un altro eroe, insomma, per l'antieroe per eccellenza del cinema hollywoodiano che si scalda soltanto per ricordare che «il film non ha alcuna valenza politica a favore dell'amministrazione Bush (lo yankee benevolo che stringe amicizia con arabi e iracheni), essendo stato girato prima dell'11 settembre. Il film è stato male interpretato - ha aggiunto Mortensen - perché il mio ruolo è quello di un americano che si reca per la prima volta in un paese di cultura islamica, l'Arabia saudita, ma senza alcun intento colonizzatore. Trovo offensivo che qualcuno cerchi di strumentalizzare il nostro lavoro». Già, gli eroi, specialmente quelli solitari, un po' ombrosi e proprio per questo ancor più credibili ed attraenti, non hanno colore politico, ma sono semplicemente degli uomini «con gli attributi», in un periodo in cui - anche sullo schermo - non se ne trovano poi molti. Da questa intuizione (rivelatasi esatta dal momento che negli Stati Uniti «Hidalgo» ha incassato già 40 milioni di dollari nei primi dieci giorni di programmazione) il cambio di registro di Hollywood che al cow-boy di Viggo Mortensen ha affiancato anche il killer-mandriano interpretato da Kevin Costner nel suo nuovo western «Open Range-Terra di confine», attualmente un buon successo anche sui nostri schermi. La verità, probabilmente, è che lo spazio lasciato vuoto da Clint Eastwood e compagni, vale a dire quello di un cinema duro, ruvido, che mostri in egual misura forza e ideali di libertà, sta riempiendosi di nuovi «eroi», appunto, fin dai tempi del successo planetario del «Gladiatore» di Russell Crowe, esito in parte bissato con un personaggio simile, il capitano-guerriero di «Master e Commander». Personaggi squadrati, tutti d'un pezzo, appartenenti ad un mito (il West, ma anche l'Antichità, o il Mare) senza condizionamenti ideologici e politici, salvo quelli che, invariabilmente, la critica vorrà poi attribuire loro. Come succederà, è facile immaginarlo, con il Brad Pitt-Achille e lo Sean Bean-Ulisse protagonisti di «Troy», nuova ed ennesima versione cinematografica dell'Iliade, ma anche con il Colin Farrell, interprete di «Alexander the Great» basato sul personaggio di Alessandro Magno. Per non parlare del kolossal di prossima uscita sull'epopea di Fort Alamo, in cui Davy Crockett ed i suoi scout tengono la posizione fino all'ultimo uomo contro le migliaia di messicani del generale Santa Ana. Eroi che hanno combattuto per una donna, per la gloria, per la libertà. E che piacciono così tanto perché, oggi, le nostre battaglie sono infinitamente più piccole.