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Parla il cardinale Foley: «Ingiustificate le proteste degli ebrei sul film di Gibson»

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Così monsignor John Foley, presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, definisce «The Passion», la pellicola di Mel Gibson destinata a divenire il film cristologico più visto di tutti i tempi, considerato che in America e in Canada ha polverizzato, in poche settimane di programmazione, gli incassi astronomici del secondo episodio di «Guerre stellari» e del terzo sequel di «Matrix». A monsignor Foley, che mi ha ricevuto in Vaticano, ho chiesto se è giustificabile l'allarmismo montato intorno a questo film non solo dalle associazioni ebraiche internazionali ma anche da buona parte della stampa. Eminenza, alcuni autorevoli giornali americani hanno parlato, in riferimento a The Passion, di una brutalità quasi pornografica, mentre c'è chi ha accostato il film alle più infami pellicole tedesche di propaganda antisemita degli anni Trenta e Quaranta. Cosa pensa di simili reazioni? «Direi che sono davvero esagerate. The Passion si limita a raccontare, in modo estremamente realistico, la sofferenza di Gesù, seguendo fedelmente il racconto dei Vangeli. Quanto al contesto religioso e politico-sociale della Palestina di allora, e quindi alla grande questione di chi possa davvero essere imputato della responsabilità di aver condannato a morte Gesù, il film non offre alcun appiglio per una sua interpretazione antisemita. Rispettando il testo delle Sacre Scritture, che ci ricordano come nel Sinedrio fossero presenti anche personalità moderatamente favorevoli al Nazareno, Gibson ha evitato di fare di ogni erba un fascio; i Romani, d'altra parte, sono descritti in modo anche più duro di quanto non lo siano i maggiorenti ebraici. Il film, certo, evidenzia la grande originalità del messaggio di Cristo, il suo andare oltre la religione dell'Antico Testamento. Ma in esso non c'è nulla che contrasti con quella linea religiosa e culturale che la Chiesa ha scelto di adottare da oltre quarant'anni e che è espressa da documenti come la dichiarazione conciliare "Nostra aetate" o il "Noi ricordiamo" del 1998, che mette in luce le corresponsabilità cristiane nella Shoah e stabilisce il principio che la responsabilità della morte di Cristo non può assolutamente essere addossata al popolo ebraico. È quanto ho cercato di spiegare ad Abraham Foxman, direttore dell'Anti-Defamation League (l'associazione nata in USA nel 1913 per combattere ogni forma di diffamazione antiebraica, ndr)». Foxman, tuttavia, ha espresso preoccupazioni in merito a possibili strumentalizzazioni antisemite del film, specie in quelle aree del mondo, dall'America Latina alla Polonia, dove ci sono forti correnti antisemite di stampo cattolico. Non crede che la proiezione del film dovrebbe essere preceduta da una campagna chiarificatrice da parte della Chiesa? «Può darsi che Foxman abbia visto la pellicola con occhi diversi dai miei, ma di questo bisognerebbe parlare con lui. Da parte mia, ripeto che "The Passion" non può essere considerato un film antisemita e nemmeno cattolico-integralista, e le assicuro che faremo ogni sforzo per impedire che qualcuno ne diffonda letture prive di fondamento». Sembra che Gibson, però, in seguito alle critiche da parte ebraica, abbia tagliato la scena in cui il sommo sacerdote Caifa, di fronte alla condanna a morte di Gesù, invocava la maledizione sul suo popolo e sui suoi discendenti. I detrattori di Gibson, inoltre, fanno notare che l'attore è figlio di un cattolico ultratradizionalista e antigiudaista, e frequenta chiese americane contrarie al Concilio. «Quella frase, nel film, non viene pronunciata da Caifa, ma mormorata in aramaico dalla folla. Non credo sia giusto, inoltre, entrare nel merito dei trascorsi personali di Gibson, così come, a suo tempo, la Chiesa non ha voluto indagare su quelli di Pasolini, quando girò "Il Vangelo secondo Matteo", la pellicola che, nonostante la differenza d

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