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Tristano e Isotta supremo vortice d'amore e morte

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L'ambiguità, musicale poetica e drammaturgica, di questo capolavoro - rito dell'amore assoluto - è tale che la tradizione operistica è andata dopo di esso spegnendosi in modo definitivo: sopraffatta, spossata. La «voracità» wagneriana ha qui conseguito il massimo segno, sopprimendo le convenzioni classico-romantiche che sino ad allora avevano condotto il linguaggio dei suoni e la pratica vocale progressivamente, compostamente, ad appropriate mete; e, d'un sol tratto, con un colpo d'ala inaudito, ha sprofondato nel nulla ciò ch'era stato e ciò che sarebbe potuto essere. Ed ha creato sul nulla qualcosa che correva al nulla. «Tristan un Isolde» è infatti la fonte dell'angoscia della musica moderna e contemporanea, la quale ha patito ad esprimere sé stessa: come se trecent'anni fossero fluiti invano e non la potessero nutrire: anzi, la dissipassero. «Tristan und Isolde» è il terreno d'una notte spettrale che ha prosciugata ogni possibilità di semenza su di esso caduta e che ha lasciato in eredità al futuro un'arsura che quelle possibilità non erano state in grado di placare. Quando l'orchestra tace, dopo l'ultima nota del terzo atto al «Liebenstod» di Isolde, abbiamo l'opprimente ed ebro sentore che la Musica sia giunta a dire tutto ciò che le era concesso dalla propria natura espressiva e che, in séguito a tale fatica meravigliosa, tenda ora ad annullarsi nelle stesse insondabili plaghe dell'essere: ove le nebbie piú rimote errano per supremi silenzî. La musica del «Tristan und Isolde» è già silenzio: addita la plenitudine d'un silenzio sí magico ed enimmatico, che non necessita di musica poiché la comprende in sé: come l'assoluto dato dall'identità dei contrarî. Wagner fu di certo sollecitato alla composizione del «Tristan» dalla smaniosa lettura dell'opera filosofica schopenhaueriana «Die Welt als Wille und Vorstellung», al paro della poesia degli «Hymnen an die Nacht» di Novalis e del poema «Tristan und Izolde» di Gottfried von Strasburg. Ed il corrisposto innamoramento del musicista per Mathilde Wesendonk, mite sposa e madre a quattro figli (assai bella ad osservarne un ritratto), accrebbe il vortice amantesco dell'atto secondo. Ed è noto che il cromatismo dell'opera non scaturí inatteso da un'intuizione dell'autore, ma trasse ragione da quello precedente: chopiniano e lisztiano. Eppur mai come nel «Tristan» radici antiche, memorie, occasioni e suggerimenti letterarî, e financo temi di cultura e di dottrina, denunziano una disprezzabile incidenza: e d'un súbito svaniscono a fronte della folgorazione dell'opera. Il genio d'altronde sempre agisce - osservava Proust - simile a quelle temperature assai elevate che hanno il potere di dissociare le combinazioni d'atomi e di raggrupparli in un ordine affatto contrario, rispondente a tutt'altro tipo. In quest'opus metaphisicum che reca la dedica precipua a sé, e solo dopo all'Eros ed alla Morte, ed al loro connubio dionisiaco - un Dioniso invaso dal contrasto di spasmi e spossatezze, di strazî e languori - affiora, quale sommo sacerdote, l'artista che, nel momento del suo piú fascinoso dominio sulla materia poetica, plasma secondo nuove «combinazioni» il rapporto romantico tra arte e vita ed insieme svela come la trascendenza della prima sia figlia all'impotenza della seconda. Con «Tristan und Isolde» prende in vero avvio la Decadenza, ch'è l'accettazione affettuosa di quella parentela. Il pessimismo di Schopenhauer ha qui ben poco spazio: il Velo di Maja Wagner l'ha sollevato mentre la straripante munificenza estetica ha confortato di sensualità lo scacco subito. Ascoltare «Tristan und Isolde» partecipa delle esperienze intellettuali ed emotive irrinunciabili nella vita d'un uomo.

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