CARRERAS

Un compleanno che sarà celebrato con un concerto che registra già il tutto esaurito. Le Poste austriache hanno emesso un francobollo col viso di Carreras. Tutti i proventi del concerto e una parte di quelli della vendita dei francobolli saranno devoluti alla Fondazione Internazionale per la Lotta contro la leucemia Josep Carreras. Perché questo grande interprete si scontrò, proprio quando aveva conquistato la vetta, con una diagnosi di leucemia che sembrò dover mandare tutto all'aria. Meno della metà delle persone adulte, infatti, sopravvivono a questo tipo di cancro. Carreras assicura che da quell'esperienza è uscito più saggio e razionale, ma gli domandiamo come si fa a dominare la paura quando si sente pronunciare questa sentenza: lei ha un cancro. «All'inizio si ha una reazione molto viscerale. Ma dopo qualche ora o giorno, si comincia a pensare che bisogna tirare fuori il meglio di sé per tentare di superare quella prova». Lei andò a operarsi a Seattle. Se fosse stato povero, oggi sarebbe ancora vivo? «Andai negli Stati Uniti perché vi si praticava già una cura a base di cellule madre che in Spagna non era ancora autorizzata. Nell'ospedale più all'avanguardia di Barcellona, inoltre, si facevano uno o due trapianti di midollo osseo a settimana, mentre in quello dove andai a Seattle se ne facevano sessanta o settanta. Per fortuna avevo una buona assicurazione, che mi rimborsò tutte le spese, veramente ingenti». La sua Fondazione ha contribuito molto a sensibilizzare l'opinione pubblica su questo problema? «Oggi la Spagna è al primo posto nelle donazioni di cordoni ombelicali. E la Fondazione Internazionale Josep Carreras, che ha la sua sede centrale a Barcellona ma è presente anche in Germania, Svizzera e Stati Uniti, organizza ogni anno uno show televisivo di beneficenza in Germania, che negli ultimi nove anni ha raccolto 75 milioni di euro. Una parte di questo denaro siamo riusciti a investirla nella banca di cellule del cordone ombelicale di Barcellona per dare impulso a questo progetto in collaborazione con l'Università di Düsseldorf». Con quale personaggio del repertorio operistico si identificava di più da giovane? «Con Rodolfo, e non solo perché anche lui era un artista, ma anche perché oltre ad essere un uomo sensibile e romantico, era allo stesso tempo un po', anzi direi parecchio, egoista. E tuttavia capace di tenerezza». E nella maturità? «A partire dai trent'anni incominciò a interessarmi Andrea Chénier. Anche lui un poeta, un personaggio realmente esistito, che visse intensamente la Rivoluzione Francese, pieno di connotazioni politiche e sociali. Ma più tardi il personaggio a cui mi sono sentito più vicino tanto per l'aspetto vocale e drammatico quanto per quello esistenziale, quello che oggi considero più attraente e che mi appaga di più, è Don José della Carmen. Forse perché anche lui deve far fronte a una serie di situazioni drammatiche. All'inizio è un uomo ingenuo, che conosce per la prima volta l'amore, finché, travolto dalla passione per l'egoista Carmen, nell'ultimo atto arriva all'autodistruzione». Qual è stato il momento magico della sua carriera? «Ci sono momenti nella vita di un cantante che danno una spinta alla sua carriera, come l'esordio nei maggiori teatri del mondo, tipo l'Opera di Vienna, il Metropolitan o il Covent Garden, o l'occasione di cantare con grandi direttori, come Karajan, Muti, Abbado. Un momento magico per me fu senza dubbio il mio debutto alla Scala di Milano: fu veramente il debutto che avevo sempre sognato». Quando i «tre tenori» - lei, Pavarotti e Domingo - si riuniscono, riescono a farsi ascoltare da un miliardo di persone. È questo il seme che permetterà all'opera di sopravvivere nel XXI secolo? «Credo che l'aspetto più positivo dei concerti con Pavarotti e Domingo sia quello di avere raggiunto un pubblico più amp