FLAMENCO
I fatti parlano chiaro. Nel giro di un mese l'Italia sarà invasa da tre grandi tournées di compagnie di danza flamenca che toccheranno i principali capoluoghi. A dare fuoco alle micce è stata martedì sera Maria Pagés, di scena per oltre dieci giorni al Teatro Olimpico di Roma. Ma l'attesa più grande è per Joaquin Cortés, lo splendido infedele che si esibisce come una rockstar ed ha innalzato il flamenco quasi ad arte di massa. La sua tournée parte da Milano Forum di Assago lunedì prossimo per raggiungere Roma solo il 29 marzo al Palasport dell'Eur con una settimana di rinvio sulla tabella di marcia prestabilita. Personaggio eccentrico e stravagante Cortés (ultima apparizione a Roma nel luglio scorso al Teatro di Ostia Antica gremito sino all'inverosimile) è artista che sa far parlare sempre di sé, anche quando snobba il Festival di Sanremo, lasciando di stucco il povero Tony Renis, per il ritardo eccessivamente accumulato sull'ora della sua apparizione. Ma Cortés è divenuto un fenomeno mediatico, principe della contaminazione tra flamenco, jazz e danza contemporanea, protagonista del gossip dei giornali rosa, idolo delle donne di tutte le età. Insomma un vero artista del business teatrale, tra i pochi ad aver trovato l'America con il flamenco. Quasi che il grande Gades, immortale maestro anche se non andaluso di nascita, non fosse mai esistito, a dimostrare che in fondo la fedeltà paga sempre. Il ritardo della presenza romana di Cortés ha anche provocato un ulteriore slittamento, quello della terza compagnia di un altro figlio d'arte, Josè Greco, che avrebbe dovuto essere al Teatro Sistina il 29 marzo e che invece vi sarà solo il 26 di aprile. Anzi al contrario del bel Joaquin, che debutta col nuovo spettacolo in Italia proprio nel capoluogo lombardo, Greco ha scelto di concludere la sua tournée a Milano. Insomma è chiaro che i tre grandi del flamenco combattono tra loro a distanza ravvicinata a colpi di «olè», cercando di guadagnarsi il pubblico con tutti i mezzi. Certo non poco contribuisce a questo successo il fascino del flamenco, una danza ritenuta tra le più antiche d'Europa e dalla ancora incerta etimologia: da flamencos (fiamminghi) o da flamear (fiammeggiare) De Falla vi identificava radici diverse, dalla tradizione vocale bizantina all'influenza araba e all'apporto dei gitani spagnoli. Ma altre assonanze si potrebbero sottolineare con la cultura ebraica, romana ed egiziana. Certo, una data di nascita può farsi risalire solo al XV secolo, per la lunga diffusione dei gitani in Spagna, sede di un grande crogiolo di culture diverse, e segnatamente in Andalusia. Fu solo nell'Ottocento che il flamenco uscì dai confini nazionali, ma divenne spesso curiosità turistico-gastronomica. Tanto che si rese necessaria all'inizio del Novecento una sorta di rifondazione che si legò ai nomi di Garcia Lorca, Joaquin Turina e Manuel De Falla. Il flamenco è figlio del Duende, come lo chiamava Lorca, ovvero dello spirito che invade i bailaores, i cantaores e i tocaores che sembrano aizzarsi a vicenda col battito delle mani (jaleo), lo schiocco delle dita (pito), l'esplosione ritmica delle castanhuelas (nacchere), il canto vocalizzato (cante jondo). Fu Vicente Escudero ad elencare le doti dell' interprete maschile di flamenco: virilità, sobrietà, verticalità, calma e stabilità, ma soprattutto rispetto della tradizione. Eppure il flamenco è un'arte del nostro tempo. Escudero nelle sue linee sembrava guardare a Picasso, Duchamp, Mirò, Brancusi, mentre Gades a Mondrian. Insomma il problema sostanziale resta quello di raccontare il flamenco oppure di raccontare con il flamenco come ha fatto Gades ad esempio con «Carmen Story», «Bodas de sangre» e «El Amor brujo», capolavori filmicamente immortalati da Carlos Saura. Fino ad ora le leggende del flamenco più vicine a noi si chiamavano Gades e Cristina Hoyos, ora abbiamo imparato i nomi di Marquez, Canales, Greco, Pagés, Cortés. Nel segno della continuità e del rinnovament