Cenetta romana: pane e «Tosca»
Applausi per l'amatissimo melodramma pucciniano diretto da Mercurio
Tant'è che alla «première» dell'altra sera il tempio lirico capitolino era affollato quanto non lo era stato in occasione di precedenti titoli della stagione in corso, degni forse di maggior attenzione. La Tosca pucciniana non si discute: si ama, al paro d'un inno cittadino. «Tosca» ha, se ci fai caso, l'ardire dei romani, la loro esuberanza sfrontata e sorniona, la loro drammaticità spettacolare e secolare, l'estrinsecazione e risoluzione dei piú agri e laceranti dissidî dell'uomo in un benaccetto e catartico coup de théâtre. Tosca s'espande a Roma, nei pressi di San Pietro, negl'interni di palazzi riccioluti e di Chiese ridondanti: è un'epifania barocca della passione piú disfrenata e sontuosa che precipita ed affoga nelle bionde voluttà del Tevere. Hanno i suoi canti lo spessore gagliardo del dialetto indigeno; le languide carezze di Floria e Mario si dànno al Gianicolo nelle ore spiate dall'invidiosa luna; del terrifico Scarpia poi n'è colma la città: s'entri in un qualsivoglia Ministero o pubblico ufficio, a contatto con la genía burocratica, eccovi stuoli scarpieschi votati a burocratizzare l'intera metropoli, e tutti i suoi cives, e financo i loro peticelli: in una sorta d'occhiuta e cerimoniale paralisi. «Tosca» va. È andata anche stavolta, simile ad un rito incorruttibile, apparecchiata dalla diligente consuetudine del Teatro dell'Opera. Ripresa in scena dai polverosi e gozzaniani bozzetti di Adolf Hohenstein, che se uno la «Tosca» non l'ha mai veduta è giusto che se la veda in un'edizione originaria: scevra delle bislaccheríe successive. D'altronde la regía antica e rimemorante di Giuseppe Giuliano ci diceva d'una recitazione tra la Osiris e la Bertini; e la cartapesta degli squarcî oleografici e dei lisi oggetti giacenti traluceva quale lettera ingiallita di segreti amanti. Steven Mercurio dirigeva però all'americana: snello, acuminato, e l'orchestra la spediva a coprire le voci, e le voci lasciava che si facessero i fatti proprî, inaudite: come una discrasía grave fra la sfera strumentale e quella vocale: tale da non ricomporsi in sospirato concento: in universa sintesi. Lei, Tosca, la signora Daniela Longhi, cantava zelante ed asprigna, qua e là pur plausibile; lui, il Cavaradossi, l'americano Richard Leech, cantava con la possanza tonitruante di quattro tenori sovrapposti, ché ne tremolavano le strutture del palazzo siffattamente intenorizzato. Ma il meglio era lo Scarpia di Silvano Carroli, grottesca faina, grondante nequizie, turlupinatore allupatissimo, maschera irreale ed infida, smodata a tal fatta da rivelare la sciocchezza di Tosca a non cadergli fra le braccia per una splendida esperienza da brivido: e chi se n'impipa di Cavaradossi una volta tanto: e se il tuo occhio destro si scandalizza, cavalo via! taglia corto anche Matteo (cfr. 5, 29-30)... Benino gli altri, risucchiati dagli applausi finali. Un pochino contestata, tuttavia, la bacchetta.