«Basta kolossal, voglio diventare povero»
Peter Jackson, che ha fatto man bassa di Oscar con la trilogia del «Signore degli anelli» è stufo di avere a disposizione milioni di dollari. Il regista neozelandese non vuole più approfittare del momento d'oro per il cinema del suo Paese (nel 2003 142 film sul mercato internazionale, 3 miliardi di euro fatturati con un profitto netto di ben 400 milioni di euro). O almeno non lo vuole fare per soldi. Il suo obbiettivo, assicura, è la cultura. Peter Jackson, dopo 11 Oscar quali progetti per il futuro? «Ritornare a casa e fare due film con pochi soldi, ma seguitare a fare da ambasciatore della mia cultura. Io sono contento di essere membro di quel continente australe così lontano dal resto del pianeta. Fa bene alla creatività, fa bene all'anima, aiuta a fantasticare. Ci insegna, fin da quando andiamo a scuola da piccoli, che i conflitti sono soltanto nella mente degli esseri umani. Alla scuola di regia gestita da Sir Richard Attenborough dove io ho preso la laurea in regia, avevo due compagni di corso che venivano a lezioni nudi, con indosso soltanto un piccolissimo tanga. Per noi era una cosa normale». Chi la conosce bene sostiene che è felice ma non ancora sazio, è vero? «È vero. Sono felice e su questo non c'è altro da dire; sarei un ingrato nei confronti della vita. È vero che non sono ancora sazio. Mi considero un emigrato di lusso che ha fatto fortuna all'estero grazie anche all'aiuto della Gran Bretagna e della micidiale macchina produttiva di Hollywood. Ma io sono molto legato al mio paese e mi considererò sazio quando saprò che siamo riusciti a posizionarci anche come status nel mercato mondiale. Il nostro cinema è bello e sano, produciamo dei gran film. Ma la mia grande amibizione come rappresentante di punta dei cineasti del mio paese è riuscire a vedere l'affermazione del nostro prodotto nel mondo. Non sono da solo. Dietro di me c'è una grande scuola di cinema. Io sono semplicemente il piu' fortunato». Come mai è stato scelto per dirigere questo film? «Sono stato presentato alla produzione dagli inglesi che hanno lanciato il nostro cinema e sapevano che eravamo pronti ad assumerci la responsabilita' di un grosso test. C'è da dire, inoltre, che dirigere un film così complesso vuol dire accettare di non occuparsi di nient'altro neppure per dieci minuti al giorno per almeno un anno. Bisogna essere molto motivati. Soltanto un outsider lo puo' essere. È il vantaggio di chi arriva ultimo. Hanno capito che io ero la persona giusta quando ho accettato di essere pagato il minimo sindacale, come un principiante, purché mi garantissero una percentuale sui profitti. Ed è andata bene». Ma rimarrà legato ai kolossal? «Assolutamente no. A dire la verità a me i grossi film neppure piacciono. Amo il cinema di rifinitura, di emozioni, con un taglio un po' esistenzialista, quello classico francese tanto per intenderci, o il grande cinema italiano degli anni '60 che tutti noi che ci occupiamo di cinema rimpiangiamo. Ma il cinema, a differenza di altre arti, si può fare soltanto con i soldi, tanti soldi. E per convincere la gente a darti i soldi devi far capire che sei bravo, devi metterti in mostra, devi fare all'inizio quello che vogliono loro». Non pensa di essere stato facilitato rispetto a spagnoli, italiani, francesi, olandesi, dal fatto che la sua lingua madre è l'inglese? «Quando sono arrivato a Londra la prima volta mi hanno detto in produzione che dovevo prima "imparare la lingua" perchè un accento dialettale come il mio era considerato troppo rozzo. Ma il mio Paese ha un vantaggio incommensurabile rispetto a Stati Uniti e Europa. Siamo molto pacifici, non abbiamo problemi sociali o politici. La Nuova Zelanda è un paese quasi favolistico, perché c'è mescolato lo sciamano al high tech, i telefonini satellitari con le cerbottane armate di freccette velenose. È un atmosfera che mi ha alimentato dentro un immaginario simile a quello dei libri di Tolkien». Pensa che sia