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Ma questo Ariston non merita rockstar

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La questione è serissima: a 68 anni, dopo una vita trascorsa accanto al vero Mick Jagger, uno come Bill Wyman non può ridursi a suonare a cottimo con il sosia di Bon Jovi. Si dirà: ma ormai sembra una ziateresa qualsiasi, può anche fare l'ospite dei Db Boulevard. E invece è un delitto di lesa maestà, perché le rockstar hanno un destino da dei dell'Olimpo, e se decidono di scendere dai poster delle camerette di tre o quattro generazioni di ragazzi devono farlo per restare fedeli alla linea, non per accompagnarsi con volenterosi giovanotti. E poco vale suggerire che Wyman è sempre stato il più sereno e disponibile dei Rolling Stones, che tra l'altro è un falso storico: quando si avvicinava ai sessant'anni il nostro impalmò una modella di 17 anni, Mandy Smith, mentre (vedi a volte il satanasso del rock'n'roll) suo figlio viveva una liason con la suocera... Diverso il caso dei Blues Brothers: per uno come Mingardi, dopo una vita da mediano nel rock nazionale, salire sul palco con loro è una festa, ed è ovvio che lo si veda saltellare come un belushi d'antan. Ma è uno scandalo che a fargli da supporto vocale sia chiamato un gigante del soul come Eddie Floyd, che da duecento anni canta con una classe più pura dell'acqua di alta montagna. Ed è triste vedere come Steve Cropper e soci siano costretti all'autoplagio (il riff è copiato da mezzo repertorio rhythm & blues, a partire da "On the road again" dei Canned Heat) pur di far contento il buon Andrea. Insomma, è oltraggioso utilizzare i vecchi leoni del rock in bolletta come se fossero delle zeppe per sostenere il peso dell'Ariston. Se decidono di salire su quel palco lo facciano per marcare il territorio, per sancire una differenza per nascita: come fecero Springsteen, o Bono & the Edge, edizioni addietro. Voci e chitarra, a testa alta, e l'orchestra poteva finire a mare. O Peter Gabriel, un anno fa: un'epifania assoluta dentro la palla magica del mondo. Per non tornare indietro con la memoria alla fine degli anni '80, quando Sanremo chiudeva le serate-fiume al Palarock, e lì ci trovavi il gotha, da George Harrison a Bryan Ferry, anche se tutti poi ricordano solo il mezzo topless "involontario" di Patsy Kensit. Ecco, l'orchestra, un altro dei problemi: perché 81 elementi che ti suonano alle spalle (e in cuffia, provocando uno spiazzante effetto di ritorno) sono capaci di fagocitare qualsiasi voce men che tracotante. E non è un caso che le migliori canzoni del festival rendano al massimo solo in versione "unplugged" da Vespa, due strumenti e via: vale per Pacifico, per Pedrini (un sontuoso inno al Prozac), per il sadomaso soft di Venuti, perfino per la "Dallata" elegante di Bungaro. Acquistano volumi e sfumature inusitate anche graziose bigiotterie rock-pop come quella di Daniele Groff (echi di Starsailor e Oasis) e di Simone, che però più che Vasco può aspirare al massimo a un ruolo da proto-Grignani. Quanto alle belle voci, attenzione: qualcuno dovrebbe raccontare a Pappalardo chi erano gli "urlatori" di Sanremo (Modugno, Dallara). Lui invece strilla come se gli avessero appena fregato la Porsche. E la tanto decantata Linda: in America fai trecento metri e ne trovi dieci. Fa simpatia, può migliorare. Ma ora, più che Aretha Franklin, sembra Nadia Rinaldi con le trecce. E Morris Albert-Mietta? Roba da sala d'attesa a Fiumicino, piuttosto che da pomiciata al Gianicolo. E non c'è da stare allegri neppure sul versante rap & dance: Piotta vale un decimo di Eminem, mentre Crepet dovrebbe psicanalizzare Dj Francesco, che nasce Pooh e vorrebbe morire Jovanotti. Aridatece i puzzoni.

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