L'altro Carnevale è pajata e tarantella
Un duplice stato d'animo che lo studioso e storico della letteratura Emerico Giachery, massimo esperto contemporaneo della poesia e della vita di Gioachino Belli, a sua volta il maggior poeta romanesco di tutti i tempi, analizza con dovizia di particolari in una sottile e acuta ricerca intitolata, appunto, Belli tra Carnevale e Quaresima (Ulisse ed., 150 pagine, 12,50 euro). Certo le difficoltà di ogni genere che la vita di oggi impone ai romani, come ai veneziani, ai viareggini, e a quante altre città si dedicano con slancio alle celebrazioni carnascialesche — per dirla con il grande Lorenzo il Magnifico — vorrebbero ridimensionare un po' tutto, ma ci riescono solo in parte: non si rinuncia al bisogno di divertirsi, di scacciare per un giorno o un'ora le angustie quotidiane. E allora, chiediamo a Giachery, com'era il Carnevale romano ai tempi del Belli? «Ne parla Goethe, che dedica quasi un libro al Carnevale romano. Lo inserirà poi nel Viaggio in Italia. Belli, dal canto suo, trova che Roma è un eterno carnevale, come dice in un passo, con funzioni, rituali, sfilate in costume anche da parte di preti, frati. Una città-spettacolo, insomma». Ma lui, il poeta, partecipava a feste e funzioni? «Il Belli non solo partecipava ma si trasvestiva. Ne parla anche Massimo D'Azeglio ne I miei ricordi dove presenta il Carnevale romano più o meno negli anni stessi del poeta, gli anni Venti in cui D'Azeglio girovagava fra Roma e i Castelli, Genzano, Marino. Belli racconta che si trovava con Rossini e Paganini, lui si travestiva da cieco e improvvisava sonetti e versetti: «Siamo ciechi, siamo nati per campar di cortesia, in giornate d'allegria non si nega carità». Rossini li mise subito in musica, lui e Paganini si erano travestiti da donna e Belli prendeva in giro il musicista del Barbiere di Siviglia, già di per sé così robusto, con tutti quei vestiti addosso. Paganini invece con quella sua faccia, sembrava un violino, magro magro... Ebbero un bel successo. Il Belli conobbe forse anche Donizetti e frequentò la casa di Jacopo Ferretti, diventando poi suo consuocero». Naturalmente l'abbuffata era il momento centrale di ogni rituale... «Tutta la grande avventura espressiva e poetica del Belli romanesco comincia proprio a tavola, e il Carnevale è un'occasione da non perdere. Del resto, al di là del Carnevale, la persistenza e la centralità del motivo del cibo è quasi ossessiva nella sua opera, tutta attraversata dal punto di riferimento del «mangereccio», utile proprio per un suggestivo itinerario interpretativo. D'altronde, la cucina del Belli è stato oggetto di studi molto approfonditi, pensiamo al testo di Vittorio Metz con illustrazioni di Attalo, intitolato proprio così. Il poeta racconta tante volte questo momento, importante e rappresentantivo di una gioia immediata del popolo romano, visto così spesso all'osteria, in trattoria, fuori porta... Eccolo allora parlare di riso e piselli — un piatto ricorrente — e ancora lesso di gallina, e della lunghezza infinita della "magnata" e degli strozzapreti...». Insomma, carnasciali e abbuffate procedono di pari passo. «Dopo i piaceri della mensa, quelli del Carnevale, sempre presenti l'uno e l'altra nei versi del Belli. Sintomo non certo casuale di incontro, i due momenti si ritrovano insieme all'inizio del cammino, cioè nel primo, ancora incerto sonetto romanesco: «Sibbé che pe' nun essece abbondanza/ come ce n'è più mejjo er carnovale/ o de pajja o de fieno, o bene o male/ tanto c'è stato da riempì la panza». La quale ultima comincia a soffrire in tempi di Quaresima... «È proprio il carnevale a richiamare per contrasto la quaresima: il corso dell'anno, come quello dell'esistenza, comprende tempi di allegria e tempi di pensoso raccoglimento. Nel sonetto Er primo descemmre si trova scritto: "Pija inzomma er libretto der lunario/ e vvedi l'anno scompartito a pprov