Tristano, catarsi aspettando la fine
Questa nuova fatica di Antonio Tabucchi, «Tristano muore», sorretta anche da una sorta di onomatopeica, remota emotività wagneriana, tuttavia, si presenta con segni e caratteri ben diversi, in cui le istanze di libertà vanno di continuo a fondersi, a confondersi, con una sorta di inquietudine di fondo che appartiene certamente ad un altro "dopo", quello che stiamo vivendo ora, agli albori del nuovo secolo. La vicenda infatti riguarda un uomo solo, in volontario isolamento, che trascorre gli attimi estremi della sua vita, nel corso di una bollente estate, nella sua vecchia casa di campagna in Toscana, circondato ovunque dall'immobilità dell'essere e dell'esistere, entro un vuoto metafisico che rimbalza dall'esterno, ottunde la coscienza, e la consapevolezza dell'ineluttabilità del male che lo assilla, e a sua volta viene restituito al mondo esterno, in un traumatico gioco di rovesciamenti e di rimandi che accentuano il dolore, la pena, il senso di colpa. Certo, il senso di colpa, proprio come in questi giorni si esce dal cinema dopo aver vissuto, e consumato sulle proprie responsabilità storiche e civili, un film come quello della Von Trotta, «Die Rosenstrasse». Le cicale impazzite per la calura fanno da sonoro contrappunto ad una condizione dell'io di totale devastazione, in cui pubblico e privato si mescolano inesorabilmente, senza rintracciare mai un compiuto punto di incontro o di riferimento. L'assillo della libertà — in una stagione in cui la confusione dominante ha deprivato il vocabolo di tanti dei suoi reali significati — si identifica per Tristano morente nello skyline, il profilo delle torri contro il cielo, emblema imperituro di una civiltà antica e irrecuperabile, travolta ormai dall'immobilità della Storia. Il protagonista, solo e unico come può esserlo chi attende, in un deserto, il momento del transito, vive una interminabile agonia, ha una cancrena che gli mangia una gamba ad ogni battito di giorni, di ore, di minuti, il dolore è intollerabile, il male dilaga lungo le arterie, pervade tutto il corpo senza scampo, sono saltati tutti i meccanismi di difesa, l'immunità è qualcosa ormai di remoto e lontano. C'è un dolente alter ego ad accompagnarlo nel trapasso inevitabile, la vecchina Frau, un tempo dispettosa, ora più ammansita, ma non del tutto. Al bambino Tristano, un tempo ora soltanto evocativo, raccontava favole e leggeva poesia in tedesco, perché imparasse quell'ostica lingua. Allora, nell'età lontana, potevano essere di conforto e sollievo, quei referti dell'immaginario, ora riflettono soltanto uno stato d'animo dominato da un forte bisogno di "spleen", di cura e medicamento dell'anima, dello spirito, di una coscienza del tutto scissa. Si è incarognito Tristano, la malattia fa questi scherzi, l'intero mondo ti si rivolta contro all'apparenza, in una mania persecutoria che colpisce inesorabile e non consente scampo. La morfina può aiutare, ma fittiziamente: «La vita non è in ordine alfabetico, come credete voi — riflette Tristano — appare un po' qua un po' là, come meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle, dopo è un mucchietto di sabbia e qual è il granello che sostiene l'altro? » E allora: qual è il senso stesso della vita? Di una vita? Nasce e prende corpo l'interlocutore cui affidare il messaggio in bottiglia della propria angoscia, di una immedicabile solitudine: è stato convocato volutamente, non è capitato lì per caso, come occasionale teste a discarico di una esistenza da restituire alla memoria postrema. Questo scrittore di un ragionevole successo, ha un ruolo e un compito ben preciso: dare un senso alla vita di Tristano, appunto. Ma che vita raccoglie, in tempi così duri e proibitivi? Quella di un impavido eroe o quella di un traditore che ha fallito di continuo, esposto al duplice scacco