di SERGIO DI CORI LOS ANGELES — A quattro anni giocava sul set con le pistole, finte, usate ...
A otto anni aveva già deciso che da grande avrebbe fatto l'attore, ma a quattordici, insieme al fratello Michael, a Drew Barrymore e Martin Sheen viene arrestato per furto d'auto, possesso di droga e uso illecito di arma da fuoco. Nonostante il padre riesca a provvedere alla sua difesa con uno stuolo di prestigiosi quanto costosi avvocati, finisce in riformatorio. A vent'anni, al suo primo ruolo in un piccolo film indipendente, è già un mito della cultura underground. Autentico ribelle, riottoso, rissoso, animato da un fervore di vita anti-borghese, ben presto si mette in luce per il suo indubbio talento recitativo. Ha la possibilità di recitare diretto dai migliori registi di Hollywood, da Brian De Palma a Sidney Pollack, da John Schlesinger a Woody Allen. Crescendo, si acquieta e matura. È stato premiato pochi giorni fa dalla Associazione dei Critici Cinematografici Usa come miglior attore dell'anno, grazie alla sua interpretazione in «Mystic River» diretto da Clint Eastwood, ex cacciatore di taglie negli spaghetti-western di Sergio Leone divenuto regista. Ha vinto un Golden Globe e ora è in odore di Oscar. Sean Penn all'alba dei quarant'anni riceve finalmente i primi roconoscimenti, contento? «Sì. E il fatto che sia contento, per non dire addirittura commosso è una notizia. Fino a qualche anno fa non sarei neppure andato a ritirare il premio oppure sarei salito sul palco e avrei fatto un qualche comizio ideologico. Ero fatto così, mi piaceva essere furioso. E naturalmente nessuno mi premiava». Cosa è accaduto? «Si cresce, si matura, cambiano le prospettive. O se vogliamo metterla in un altro modo, ho accettato l'idea che mio padre avesse ragione, che ciò che era importante nella vita, per uno che voleva fare l'attore, era diventare bravo e basta. Il pubblico va convinto con la propria maschera non con i comizi. C'è stato un incontro per me decisivo: quello con Clint Eastwood, la persona migliore che io abbia mai incontrato». A Hollywood la sua venerazione per Clint Eastwood sta diventando proverbiale, lei ne parla come se fosse un guru. «Ma lo è. Non nel senso di quei predicatori farneticanti. Nel senso di responsabilità e saggezza. Clint Eastwood, invecchiando, sta diventando sempre di più il punto di riferimento etico e morale per tutti gli artisti della mia generazione. Lui offre ciò che oggi manca». E sarebbe? «Una solidità morale che abbiamo perso. Troppa ricchezza. Clint è tra pochi che rifiuta proposte economicamente super miliardarie per questioni di principio. Quando sei mesi fa gli avevano proposto di candidarsi alla carica di governatore - e avrebbe senz'altro vinto - lui ha rifiutato. Sapeva che immensa grana sarebbe stata. Schwarzenegger, infatti, superata la soddisfazione iniziale sta già nei guai con se stesso perché ha capito come sia difficile la gestione della vita politica». È importante per lei questo premio? «Decisivo. L'Oscar serve ai produttori per vendere e dà molta pubblicità. Il premio della critica, invece, è il riconoscimento per una scelta di carriera. Essendo figlio di gente di cinema che ha avuto successo, questo premio è in assoluto il più importante per me. Ai figli delle celebrità, la critica, di solito, riserva un trattamento duro. Nel senso che ci tratta peggio degli altri, ci fanno pagare il facile accesso al mercato».