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di ALESSANDRO CENSI ALLA partenza erano 230.

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000furono i dispersi, e 70.000 uomini, caduti prigionieri dei sovietici, finirono nei loro lager. Di questi, solo 10.000 tornarono in patria dopo la fine della guerra, dimostrando come i campi di prigionia sovietici fossero centri di annientamento. Di questa odissea dei prigionieri italiani in URSS si sono sempre avuti dati contraddittori e notizie approssimative. Ora un lavoro di Maria Teresa Giusti, studiosa di lingua russa e di storia contemporanea e ricercatrice all'Università dell'Aquila - «I prigionieri italiani in Russia» (Il Mulino, 332 pagine, 21 euro), - fa un po' d'ordine sull'argomento. «La storia dei prigionieri italiani in Russia - mi dice la professoressa Giusti, che per la sua ricostruzione si è avvalsa di documenti in parte inediti e delle testimonianze di alcuni reduci, - è una storia di fame, di lavoro, di malattie e morte. Per chi sopravvisse, durò quattro o cinque anni, per alcuni persino dodici». Quali furono le ragioni della disfatta dell'Armir? «Vi contribuì molto la scarsa motivazione degli italiani, ma il problema principale fu l'impreparazione dell'esercito e il fatto che Mussolini prese sottogamba l'impresa del 1942. Gli iniziali successi dell'Asse lo convinsero a spedire in Russia altri 230.000 uomini dopo i primi 62.000, pensando che la guerra si sarebbe risolta subito. Invece le carenze negli approvvigionamenti portarono al tracollo dell'armata italiana durante la seconda battaglia offensivo-difensiva sferrata dai sovietici». Che cosa successe in quella battaglia che costò la vita a migliaia d'italiani? «L'Armata Rossa disponeva di un numero preponderante di soldati, e i suoi assalti furono inarrestabili per potenza di fuoco e tattica su un terreno che i russi conoscevano bene. I comandi italiani e tedeschi non seppero reagire, ci fu un cedimento del fronte nel punto difeso dalle divisioni romene, e gli eserciti dell'Asse dovettero indietreggiare. Il territorio molto esteso avrebbe richiesto un tipo di guerra alla quale gli alpini non erano abituati, né avevano gli armamenti adatti a uno scontro mobile, veloce. Inoltre dovevano difendere un fronte troppo lungo rispetto al numero, e non c'erano retrovie pronte a sostituire la prima linea. Le condizioni climatiche fecero il resto. Gli italiani non erano bene equipaggiati, anche se non è vero che avessero scarpe di cartone: erano di pelle, ma troppo leggere per quei climi». Migliaia di loro finirono nei campi di prigionia. Come furono trattati ? «I sovietici erano impreparati ad accogliere migliaia di prigionieri di varie nazionalità. L'Armata Rossa li passò quasi subito all'NKVD, il Commissariato del Popolo per gli affari interni. Dal fronte furono trasferiti in campi di smistamento caotici, dove si registrò la percentuale più alta di mortalità, perché mancavano acqua potabile e medicine. Anche chi aveva ferite lievi morì per setticemia. In un solo campo morirono 9.000 italiani. Molti furono falcidiati dalla fame. Il cibo arrivava, ma era insufficiente e i soldati russi ne facevano razzia. All'interno dei campi si crearono delle gerarchie fra i prigionieri che gestivano il rancio e i posti migliori. Si crearono anche incomprensioni, non solo linguistiche. Col tempo, nei campi più organizzati, le condizioni migliorarono leggermente, anche perché nel maggio del 1943 Lavrentij Berija, il ministro degli Interni sovietico, intervenne con un decreto: si era reso conto che morivano troppi prigionieri, e questo rischiava di compromettere la produzione». I campi di prigionia erano simili ai gulag? «Erano inseriti nel sistema del gulag, con un trattamento leggermente migliore, ma solo perché gli internati dovevano lavorare. Ogni giorno ognuno doveva svolgere una certa quantità di lavoro che in quelle condizioni era altissima. Chi non riusciva a farlo, non aveva diritto all'aggiunta di cibo indi

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